Letteratura

Carlo Gozzi, Discorso di una donna sopra la vecchiaia  da “La Gazzetta Veneta”, 1761

Ieri me ne stava alla finestra, e spensieratamente guardava il popolo che passava; quando, all’improvviso, un uomo, con voce da banditore, mi si fe davanti gridando: "occhiali, signora, occhiali fini"; e mi fa vedere un paio di quelle selle da naso. Mi parve a quella vista di essere colpita da un fulmine ed immediatamente mi ritirai dalla finestra. Ed è possibile, diceva tra me stessa, che io sembri tanto vecchia da esser creduta in bisogno di occhiali? La mia mente in quel punto era così sconcertata, che non era capace di riflettere che quello era il costume dell’ottico mercadante, di offrire occhiali a tutti; e che infatti molte persone di me più giovani erano obbligate ad usarli. Corsi allo specchio, spesse fiate odioso consigliere; e con tutto il turbamento della mia mente, potei, senza ingannarmi, riconoscere che le marche crudeli del tempo non ancora apparivano sul mio volto. Ma questo non fu sufficiente a rasserenarmi; onde ricorsi agli anni; e facendo forza a me stessa per essere fedele nel malinconico conteggio, trovai che correva l’anno trentuno della mia età! Oh Dio, da quale affanno non fui io oppressa nel conoscermi di soli nove anni lontana da quel periodo fatale, in cui appena, con quieta coscienza, possiamo dissimulare a noi medesime la nostra declinazione! Dove era la mente mia? Dove la mia ragione? E non è egli vero che non si può vivere senza invecchiare? Dove dunque era allora in me la cognizione del comun destino della natura? Io vi confesso di essere divenuta tre o quattr’ore più vecchia, prima di potermi riconciliare col pensiero da cui veniva convinta che ad ogni momento si avvicinava a quella spaventosa scena della vita.
Ma, grazie al cielo, mi sono finalmente rasserenata, ed ho riso della mia sciocchezza. Non si può negare la naturale avversione per i capelli canuti, e per le grinze del volto; ma non può parimenti negarsi che questa avversione non proceda dalla contraddizione e dalla inconvenienza in cui è la nostra mente con se medesima. Noi ridiamo di mille difetti altrui; e non mai ci si presenta in aspetto ridicolo la vergogna e lo spavento che da noi si sentono in avanzarci verso la vecchiaia, a cui tutti desideriamo arrivare. Vorremmo noi per avventura viver sempre, e sempre giovani? O desidereremmo che almeno vi fosse un intervallo vacuo e fisso di ottantacinque anni tra il quindici ed il cento? Ma vi ha ella luogo questa pazzia? Se la vecchiaia fosse la sola foriera o della morte o delle malattie, sarebbe meno irragionevole lo spavento, Ma, ahi!, ogni giorno veggiamo il fior della gioventù preda della morte, bersaglio delle malattie; non vi è robustezza, non vi è età, non vi è grado o condizione, che vagliano a renderci sicuri. Sarebbe mai il timore di perdere il dono della bellezza che rendesse terribile la vecchiaia? Ma il vaiuolo, e mille altri accidenti, rispettano forse alcun periodo della vita? Il nome è quello che temiamo, e non l’effetto.