Letteratura

Andrea Camilleri, Un mese con Montalbano, 1998

Appena l’omo trasì nel suo ufficio, Montalbano pinsò di stare patendo un’allucinazione: il visitatore era una stampa e una figura con Harry Truman, il certamente defunto ex presidente degli Stati Uniti così come il commissario l’aveva sempre visto nelle fotografie e nei documenti dell’epoca. Lo stesso vestito gessato a doppio petto, lo stesso cappello chiaro, la stessa cravatta vistosa, la stessa montatura degli occhiali. Solo che, a taliarlo bene, le differenze erano due. La prima era che l’omo navigava verso l’ottantina, se non l’aveva già doppiata, portata in modo eccellente. La seconda era che mentre l’ex presidente rideva sempre, macari quando ordinava di gettare la bomba atomica su Hiroshima, questo non solo non sorrideva, ma aveva attorno a lui un’ariata di composta malinconia.
"Mi perdoni se la disturbo, signore. Mi chiamo Charles Zuck". Parlava un italiano da libro, senza accenti dialettali. O meglio, un accento ce l’aveva e abbastanza evidente. "Lei è americano?" spiò il commissario facendogli cenno di assittarsi sulla seggia davanti alla scrivania. "Sono cittadino americano, sì". Sottilissima distinzione che Montalbano giustamente interpretò così: non sono nato americano, lo sono diventato. "Mi dica in che cosa posso esserle utile". L’omo gli faceva simpatia. Non solo aveva quell’ariata malinconica, ma pareva macari spaesato, straneo. "Sono arrivato a Vigata tre giorni fa. Volevo fare una brevissima visita. Difatti dopodomani ho un aereo da Palermo per tornare a Chicago". Embè? Forse con un altro Montalbano avrebbe già perso la pazienza.
"E qual è il suo problema?". "Che il sindaco di Vigata non mi riceve".
E che ci accucchiava lui? "Guardi, lei è straniero e, sebbene parli un italiano perfetto, certamente ignora che un commissariato di polizia non si occupa di…". "La ringrazio per il complimento", fece Charles Zuck "ma l’italiano l’ho insegnato per decenni negli Stati Uniti. So benissimo che lei non ha il potere di obbligare il sindaco a ricevermi. Però può cercare di convincerlo". Perché stava a sentirlo con santa pacienza, perché quell’omo gli faceva venire il curioso? "Posso, sì" disse il commissario. E aggiunse, volendo scusare il primo cittadino agli occhi di uno straneo. "Mancano tre giorni alle elezioni. E il nostro sindaco si è ricandidato. Comunque è suo dovere riceverla". "Tanto più che io sono, anzi ero, vigatese". "Ah, quindi lei è nato qua" si stupì, ma poi non tanto, Montalbano. Stimando a occhio e croce, l’omo doveva essere nato verso gli anni Venti, quando il porto andava della bella e gli stranieri a Vigata s’accattavano a due un soldo. "Sì". Charles Zuck fece una pausa, l’ariata malinconica parse condensarsi, farsi più spessa, le pupille gli si misero a saltare da una parete all’altra della cammara. "E qui sono morto". La prima reazione del commissario non fu di stupore ma di raggia: raggia verso se stesso per non avere capito subito che l’omo era un poviro pazzo, uno che con la testa non ci stava. Decise d’andare a chiamare qualcuno dei suoi per farlo gettare fora dal commissariato. Si susì. "Mi scusi un attimo". "Non sono pazzo" disse l’americano. Tutto come da copione, i pazzi che sostenevano d’essere sani di mente, gli ergastolani che giuravano d’essere innocenti come a Cristo. "Non c’è bisogno di chiamare nessuno" fece Zuck susendosi a sua volta "e mi perdoni per averle fatto perdere tutto questo tempo. Buongiorno". Gli passò davanti dirigendosi alla porta. Montalbano ne provò pena, gli ottant’anni al vecchio ora gli si contavano tutti. Non poteva lasciar andare uno di quell’età, se non pazzo sicuramente stolito e straniero: capace che faceva qualche malo incontro. "Si risegga". Charles Zuck obbedì. "Ha un documento di riconoscimento?". Senza parlare, quello gli pruì il passaporto. Non c’era dubbio: si chiamava come aveva detto ed era nato a Vigata il 6 settembre 1920. Il commissario glielo restituì. Si taliarono. "Perché dice di essere morto?". "Non sono io a dirlo. Così c'è scritto". "Dove?". "Sul monumento ai caduti". Il monumento ai caduti, che sorgeva in una piazza sulla via principale di Vigata, rappresentava un soldato col pugnale levato a difendere una femmina con un bambino in braccio. Il commissario si era fermato qualche volta a taliarlo perché a suo parere si trattava di una buona scultura. Sorgeva su un basamento rettangolare e sul lato più in vista c’era murata una lapide con i nomi dei morti della guerra 1914-18 ai quali il monumento, in origine, era stato dedicato. Poi, nel ‘38, sul lato di dritta era comparsa una seconda lapide con l’elenco di quelli che ci avevano lasciato la pelle nella guerra d’Abissinia e in quella di Spagna. Nel ‘46 era stata aggiunta, sul lato di mancina, una terza lapide con la lista dei morti in guerra nel 1940-45. Il quarto ed ultimo lato era momentaneamente vacante. Montalbano si sforzò la memoria. "Non ricordo d’aver letto il suo nome" concluse. "E infatti Charles Zuck non c’è. C’è invece Carlo Zuccotti, che sono sempre io". Il vecchio sapeva contare le cose con ordine, brevità e chiarezza. A fare il sommario dei settantasette anni della sua esistenza ci mise poco meno di una diecina di minuti. Suo padre, contò, che si chiamava Evaristo, era milanese di famiglia e si era maritato, ancora molto picciotto, con una di Lecco, Annarita Vismara. Poco dopo il matrimonio, Evaristo, che era ferroviere, venne mandato a Vigata che allora aveva ben tre stazioni ferroviarie, delle quali una, riservata al traffico commerciale, stava proprio all’ingresso della cinta portuale. E fu così che Carlo nacque a Vigata, primo e ultimo figlio della coppia. A Vigata Carlo passò dodici anni della sua vita, studiando prima alle scuole elementari del paisi quindi al ginnasio di Montelusa che raggiungeva con la corriera. Poi il padre, promosso, venne trasferito a Orte. Finito il liceo in quella città, s’iscrisse alla università di Firenze dove intanto il padre era stato spostato. Un anno prima che si laureasse, la madre, la signora Annarita, morì. "Che corso ha frequentato?" spiò a questo punto Montalbano. Quello che l’omo gli stava contando non gli bastava, voleva capirlo di più. "Lettere moderne. Ho studiato con Giuseppe De Robertis, la tesi era su Le Grazie di Foscolo". - Tanto di cappello - pinsò il commissario ch’era un patito di letteratura. Intanto era scoppiata la guerra. Richiamato alle armi, Carlo fu mandato a combattere in Africa settentrionale. Dopo sei mesi ch’era al fronte, una lettera del compartimento ferroviario di Firenze l’informò che suo padre era morto in seguito a un mitragliamento. Ora era veramente solo al mondo, dei parenti dei genitori non sapeva manco il nome. Fatto prigioniero dagli americani, venne mandato in un campo di concentramento del Texas. Sapeva l’inglese bene e questo lo aiutò molto, tanto da farlo diventare una specie di interprete. Fu così che conobbe Evelyn, la figlia del responsabile amministrativo del campo. Rimesso in libertà dopo la fine della guerra, si era sposato con Evelyn.
Nel ‘47 da Firenze gli spedirono, su sua richiesta, l’attestato di laurea. Non serviva per gli Stati Uniti, ma lui ripigliò a studiare fino ad essere abilitato all’insegnamento. Ottenne la cittadinanza americana, cangiò il nome da Zuccotti in Zuck, come già gli americani lo chiamavano sbrigativamente. "Perché è voluto tornare qui?" "Questa è la risposta più difficile" fece il vecchio. Parse per un attimo che si fosse perso nel labirinto dei suoi ricordi. Il commissario restò muto, in attesa. "La vita dei vecchi come me, commissario, a un certo momento consiste in un elenco: quello dei morti. Che a poco a poco diventano tanti che ti pare di essere rimasto solo in un deserto. Allora cerchi disperatamente di orientarti, ma non sempre ti riesce". "La signora Evelyn non è più con lei?" "Avevamo avuto un figlio, James. Uno solo. Si vede che la mia è una famiglia di figli unici. È caduto nel Vietnam. Da allora mia moglie non si è più ripresa. Ed è andata a ritrovare nostro figlio otto anni fa". Ancora una volta Montalbano non raprì bocca. A questo punto il vecchio professore sorrise. Un sorriso tale che a Montalbano sembrò che il cielo si fosse scurato e che una mano a pugno gli avesse agguantato il cuore. "Che brutta storia, commissario. Brutta letterariamente intendo, a metà strada tra il drammone alla Giacometti, quello della morte civile, e certe situazioni pirandelliane. Perché son voluto venire qua, dice? Sono venuto d’impulso. Qua, a conti fatti, ho passato il meglio della mia esistenza, il meglio, sì, e solo perché non avevo ancora la cognizione del dolore. Non è poco, sa? Nella mia solitudine di Chicago, Vigata ha cominciato a brillare come una stella. Ma già appena messo piede in paese, l’illusione è svanita. Era un miraggio. Dei vecchi compagni di scuola non ne ho trovato uno, nemmeno la casa dove ho abitato esiste più, ora c’è un palazzone di dieci piani. E le tre stazioni si sono ridotte ad una sola con poco o niente traffico.
Poi ho scoperto che figuravo nella lapide dei caduti. Sono andato all’anagrafe. C’è stato evidentemente un errore da parte del comando militare. Mi hanno dato per morto". "Mi scusi la domanda, ma lei, a leggere il suo nome, che ha provato?".
Il vecchio ci pensò sopra tanticchia. "Rimpianto", disse poi a bassa voce. "Di che?". "Che le cose non siano andate come c’è scritto sulla lapide. Invece ho dovuto vivere". "Senta professore, certamente entro domani le procurerò un incontro col sindaco. Dove abita?". "All’hotel dei Tre Pini. È fuori Vigata, ogni volta devo prendere il taxi per andare e tornare. Anzi, giacché ci siamo, me ne chiama uno?". Nel dopopranzo non arriniscì a parlare col sindaco impegnato prima in un comizio e appresso in un giro porta a porta. Solo all’indomani matina venne ricevuto. Gli contò la storia di Carlo Zuccotti, morto vivente. Alla fine, il sindaco si fece una risata tale che gli spuntarono le lacrime. "Lo vede, commissario? Il nostro quasi compaesano Pirandello non aveva bisogno di tanta fantasia per inventarsi le cose! Gli bastava trascrivere quello che succede realmente dalle nostre parti!". Montalbano, non potendolo pigliare a timbuluna in faccia, decise di non dargli il suo voto. "E lei, commissario, ha idea di quello che vuole da me?" "Mah, possibilmente far cangiare la lapide". "Oh Cristo!" s’infuscò il sindaco "sarebbe una bella spesa". "Professore? Il commissario Montalbano sono. Il sindaco la riceverà in comune oggi dopopranzo alle diciassette. Le va bene? Così domani potrà prendere il suo aereo per Chicago". Silenzio assoluto dall’altro capo. "Professore, mi ha sentito?". "Sì, ma stanotte …". "Stanotte?". "Sono sempre rimasto sveglio a pensare a quella lapide. Io la ringrazio per la sua cortesia, ma ho preso una decisione. Credo sia la più giusta". "E cioè?". "Being here…". E riattaccò senza salutare. Being here: dato che ci sono. Si susì di scatto dalla seggia, in corridoio si trovò davanti Catarella, lo spintonò con violenza, corse in macchina, i due chilometri che separavano Vigata dall’hotel gli parsero un centinaro, irruppe nella hall. "Il professor Zuccotti?". "Non c’è nessun Zuccotti". "Charles Zuck, stronzo". "115, primo piano", balbettò il portiere strammato. L’ascensore era occupato, si fece i gradini due a due. Arrivò col fiatone, tuppiò. "Professore? Apra! Il commissario Montalbano sono". "Un attimo" rispose la voce tranquilla del vecchio. Poi, all’interno, violento, fortissimo, risuonò uno sparo. E Salvo Montalbano seppe che il sindaco di Vigata non avrebbe dovuto affrontare la spesa di rifare la lapide.