Letteratura

Alessandro Baricco, Emmaus, 2009

Conosco questa storia perché me l’ha raccontata Bobby, con tutti i particolari. L’ha fatto per spiegarmi che probabilmente ogni cosa era già successa prima, con una lentezza da movimento geologico, ma alla fine era stato sulla pietraia che lui aveva capito, d’un tratto, che tutto era finito. Si riferiva a qualcosa che noi conosciamo bene - l’espressione imprecisa che usiamo è: perdere la fede.
È il nostro incubo. In ogni momento del nostro cammino sappiamo che qualcosa può succedere, affine a un’eclissi totale - perdere la fede. Quanto i preti ci possono insegnare, a proposito di questa eventualità, è comprensibile solo risalendo all’esperienza dei primi apostoli. Erano pochi, i più vicini a Cristo, e all’indomani del Calvario, staccato il loro Maestro dalla croce, si riunirono, sgomenti. Va ricordato che avevano addosso il dolore molto umano per la perdita di qualcosa di caro: ma niente di più. Nessuno di loro, in quel momento, era consapevole che a morire non era stato un amico, un profeta, un maestro - ma Dio. Era qualcosa che non avevano ca­pito. Evidentemente non era alla loro portata riuscire a immaginare che quell’uomo fosse davvero Dio. Così si riunirono, quel giorno, dopo il Calvario, nella memoria molto semplice di una persona cara, e insostituibile, che era andata perduta. Ma dal cielo, su di loro, calò lo Spirito Santo. Così, d’improvviso, il velo si squarciò, e loro capirono. Quel Dio con cui avevano camminato per anni, adesso lo riconobbero, e c’è da immaginare come ogni piccola tessera della vita in quell’istante sia loro tornata in mente, in una luce così abbagliante da spalancarli nel profondo, e per sempre. Nel Nuovo Testamento, quello spalancamento è tramandato nella bella metafora della glossolalia: divennero di colpo capaci di parlare tutte le lingue del mondo - era un fenomeno noto, e lo si associava alla figura dei veggenti, degli indovini. Era il sigillo di una comprensione agica.
Così, quanto ci insegnano i preti è che la fede è un dono, che viene dall’alto, e che appartiene all’ambito del mistero. Per questo è fragile, come una visione - e come una visione, intoccabile. È un accadimento sovrannaturale. Tuttavia noi sappiamo che non è così.
Siamo ubbidienti alla dottrina della Chiesa, ma anche conosciamo bene una storia diversa, le cui radici risalgono alla terra sommessa che ci ha generati. Da qualche parte, e in modo invisibile, le nostre famiglie infelici ci hanno passato un istinto irrimediabile a credere che la vita sia un’esperienza immensa. Tanto più modesta è stata qualsiasi consuetudine che ci hanno trasmesso, tanto più profondo è stato, ogni giorno, il loro richiamo sotterraneo a un’ambizione senza limiti - un’attesa di senso quasi irragionevole. Così ci siamo accostati al mondo, fin da bambini, con il preciso intento di restituirlo alla sua grandezza. Lo pretendiamo giusto, nobile, fermo nel tendere al meglio e inarrestabile nel suo cammino di creazione. Questo fa di noi dei ribelli, e dei diversi. Il mondo fuori ci appare per lo più un compito umiliante, arido, del tutto inadeguato alle nostre aspettative. Nelle vite di quelli che non credono vediamo la routine dei condannati, e in ogni loro singolo gesto scorgiamo la parodia dell’umanità che sogniamo. Qualsiasi ingiustizia è un’offesa alle nostre attese - lo è ogni dolore, malvagità, miseria d’animo, bruttura. Lo è qualsiasi passaggio a vuoto del senso - e ogni uomo senza speranza, o nobiltà. Ogni gesto meschino. Ogni istante perduto.
Così, ben prima che in Dio, crediamo nell’uomo - e solo questo, all’inizio, è la fede. Come ho detto, essa affiora in noi nella forma di una battaglia - siamo contro, siamo differenti, siamo dei pazzi. Ci fa schifo ciò che piace agli altri, ed è per noi prezioso quanto gli altri disprezzano. Inutile dire che ciò ci galvanizza. Cresciamo nell’idea di essere degli eroi - ma tuttavia di un tipo strano, che non discende dalla tipologia classica dell’eroe - non amiamo infatti le armi, né la violenza, né la lotta animale. Siamo eroi femmina, per quel nostro insinuarci nella bagarre a mani nude, forti di un candore infantile e in­vincibili nel nostro assetto di irritante modestia. Strisciamo tra le ruote dentate del mondo a fronte alta ma con il passo degli ultimi - lo stesso passo schifosamente umile, e fermo, con cui Gesù di Nazareth camminò il mondo per tutta la sua vita pubblica, fissando prima che una dottrina religiosa un modello di comportamento. Invincibile, come la storia ha dimostrato.
Nel fondo di questa epopea rovesciata, troviamo Dio. E un passo naturale, che viene da sé. Crediamo così tanto in ogni creatura, che ci risulta normale il pensare a una creazione - un gesto sapiente che chiamiamo con il nome di Dio. Così, la nostra fede non è tanto un evento magico, e incontrollabile, quanto una deduzione lineare, l’estensione all’infinito di un istinto ereditato. Cercatori del senso, ci siamo spinti molto lontano, e al termine del viaggio c’era Dio - la totale pienezza del senso. Molto semplice. Quando ci capita di smarrire tale semplicità, ci soccorrono i Vangeli, perché in essi il nostro viaggio dall’uomo a Dio è fissato per sempre in un modello certo, dove il figlio ribelle dell’uomo coincide con il figlio prediletto di Dio, entrambi fusi in un’unica carne, eroica. Quel che potrebbe essere follia, in noi, lì è rivelazione, e destino compiuto - ideogramma perfetto. Ne ricaviamo una certezza senza spigoli - la chiamiamo fede.
Perderla, è cosa che accade. Ma uso qui un’espressione imprecisa, che allude alla fede come incantesimo, una cosa che non ci riguarda. Non perderò la fede, non la può perdere Bobby. Non l’abbiamo trovata, non possiamo perderla. È una cosa differente, per nulla magica. Quel che mi viene in mente è il geometrico crollo di un muro - l’istante in cui cede un punto della struttura, e tutto collassa. Perché solida è la parete di pietra, ma nel cuore sempre porta un incastro debole, un appoggio malfermo. Nel tempo abbiamo imparato con esattezza dove - la pietra nascosta che ci può tradire. È nell’esatto punto in cui appoggiamo ogni nostro eroismo, e ogni nostro sentimento religioso: è dove rifiutiamo il mondo degli altri, dove lo disprezziamo, per istintiva certezza, dove lo sappiamo insensato, con totale evidenza. Solo Dio ci basta, le cose mai. Ma non è sempre vero, non è vero per sempre. Basta alle volte l’eleganza di un gesto altrui, o la gratuita bellezza di una parola laica. Lo scintillio di vita, raccolto in destini sbagliati. La nobiltà del male, a tratti. Filtra allora una luce, che non avremmo sospettato. Si spezza la certezza di pietra, e tutto crolla. L’ho visto in tanti, l’ho visto in Bobby. Mi ha detto - ci sono un sacco di cose vere, intorno, e noi non le vediamo, ma loro ci sono, e hanno un senso, senza nessun bisogno di Dio.