Letteratura

Erri De Luca, In nome della madre, 2006

"Ce la farò, qui starò benissimo. Hai trovato un posto adatto, caldo e tranquillo. Ce la farò Iosef, sono donna per questo. All’alba ti metterò sulle ginocchia Ieshu." I dolori erano cominciati. Iosef sistemò della paglia sulle pietre asciutte, ci stese sopra una coperta e le pelli. Gli chiesi il coltello e un bacile d’acqua. Mi sdraiai. Batteva più violento il cuore, i colpi bussavano alle tempie, da chiudere gli occhi. Nessuno intorno, la piccola stalla era fuori nei campi. Una luce calava da un’apertura del tetto di canne e di rami. Era lei, la cometa, appesa in cielo come una lanterna. Prima di separarci gli ho messo in ordine i capelli, ci siamo sorrisi. "Così mi piaci", gli ho detto, soddisfatta di com’erano sistemati.
Iosef era uscito lasciando il coltello e il bacile. Ora toccava a me, ora dovevo fare, parto­ire è fare con il corpo. Mia madre mi aveva spiegato che stare distesa un po’ in discesa, aiutava. Macché, mi alzai in piedi e mi appoggiai di schiena alla mangiatoia. Dietro di me i musi dell’asina e del bue, uno di loro mi allungò una leccata sulla nuca. Avevo nelle orecchie i loro fiati. Messi insieme avevano un ritmo svelto da andatura spedita. Regolai il mio respiro sul loro.

Sudavo. Appoggiata di schiena mi tenevo il pancione con due mani per aiutare le mosse del bambino. L’incoraggiavo a bassa voce, col respiro corto. Lo chiamavo. Le bestie alle spalle mi davano forza. Le gambe mi facevano male per la posizione. Mi inginocchiai per farle riposare. "Affacciati bimbo mio, vienimi incontro, mamma tua è pronta a prenderti al volo appena spunta la tua testolina." I muscoli del ventre andavano dietro al respiro, una contrazione e un rilassamento, spinta, rincorsa, spinta. Quando lo strappo era più forte mi mordevo il labbro per non far scappare il grido. Iosef era di sicuro davanti alla porta, di guardia.

Lontano i pastori chiamavano qualche pecora persa. "E una bella notte per venire fuori, agnellino mio, notte limpida in alto e asciutta in terra. Il viaggio è finito e tu hai aspettato questo arrivo per nascere. Sei un bravo bambino, sai aspettare. Ora nasci, che tuo padre ti aspetta. Si chiama Iosef, quando entra gli diciamo: caro Iosef io sono Ieshu tuo figlio. Vedrai che sorpresa, che faccia farà."

Parlavo e soffiavo, a un colpo più forte, una spallata di Ieshu, mi alzai di nuovo in piedi appoggiandomi alla mangiatoia. Le bestie ruminavano tranquille, c’era pace. Iosef aveva scelto un buon posto per noi. "Bel colpo Ieshu, un altro così e sei fuori, ecco ti aiuto, spingiamo insieme, le mani sono pronte a raccoglierti, via?" Via, è uscita la spalla, l’ho toccata, poi è rientrata, ma subito dopo di slancio Ieshu ha messo fuori la testa, l’ho avuta tra le mani, mi sono commossa, mi è scappato un singhiozzo e sul singhiozzo è venuto fuori tutto e l’ho afferrato al volo. L’ho alzato per i piedi per liberare i polmoni e fare spazio al primo vento che forza l’ingresso chiuso del respiro. Ieshu ha inghiottito aria senza piangere.

Faccio mosse esperte senza conoscerle. Il mio corpo fa da solo, esegue. Non l’ho istruito io. Odoro la creatura perfetta che mi è nata, posso allentare il nervo attorcigliato del sospetto: è maschio, è la certezza, non più una profezia. È maschio, primogenito in terra di Iosef e Miriàm, carne da circoncidere, oggi a otto. È maschio, l’ho fatto io, sgusciato sano in mezzo all’acqua e al sangue, il corpo esulta insieme a quello di ogni donna che mette al mondo l’altro sesso, perché è un regalo a noi.

Ho tagliato il cordone, un solo taglio, ho fatto il nodo del sarto e ho strofinato il suo corpo in acqua e sale. Eccolo finalmente. L’ho palpato da tutte le parti fino ai piedi. L’ho annusato e per conferma gli ho dato una leccatina. "Sei proprio un dattero, sei più frutto che figlio." Ho messo l’orecchio sul suo cuore, batteva svelto, colpi di chi ha corso a perdifiato. Al poco lume della stella l’ho guardato, impastato di sangue mio e di perfezione. "Somigli a Iosef." Così ho voluto vederlo. "Tuo padre in terra è un uomo coraggioso, tu gli assomiglierai." Mi sono stesa sotto la coperta di pelle e l’ho attaccato al seno.

Il bue ha muggito piano, l’asina ha sbatacchiato forte le orecchie. E stato un applauso di bestie il primo benvenuto al mondo di Ieshu, figlio mio. Non ho chiamato Iosef. Gli avevo promesso un figlio all’alba ed era ancora notte. Fino alla prima luce Ieshu è solamente mio. È solamente mio: voglio cantare una canzone con queste tre parole e basta. Stanotte qui a Bet Lèhem è solamente mio. Succhiava e respirava, la mia sostanza e l’aria: "Non potrai avere niente di più bello di questo bimbo mio. Il respiro di una notte di kislev scarsa di luna te l’offre la tua terra d’Israele, il succo di madre-pianta lo spremi tu da me. Questo è il meglio che potremo darti, la tua terra e io".

Fuori c’è il mondo, i padri, le leggi, gli eserciti, i registri in cui iscrivere il tuo nome, la circoncisione che ti darà l’appartenenza a un popolo. Fuori c’è odore di vino. Fuori c’è l’accampamento degli uomini. Qui dentro siamo solo noi, un calore di bestie ci avvolge e noi siamo al riparo dal mondo fino all’alba. Poi entreranno e tu non sarai più mio.
Ma finché dura la notte, finché la luce di una stella vagante è a picco su di noi, noi siamo i soli al mondo. Possiamo fare a meno di loro, anche di tuo padre Iosef che è il migliore degli uomini. Pensa: noi usciamo di qui all’alba del giorno e fuori non esiste più nessuno, né città, né esseri umani. Pensa: noi siamo soli al mondo. Che felicità sarebbe, nessun obbligo all’infuori di vivere. Finché dura la notte è così.

William Ladd Taylor, La natività, 1922.