Letteratura

Lev Tolstoj, Racconti, XIX secolo

Il venticinque d’aprile noi scendevamo dalla carrozza da viaggio della casa di Pjetròvskoje. Al partire da Mosca, papà era pensieroso. Volòdja gli domandò se forse maman stava male, lo guardò con tristezza, e in silenzio accennò di sì col capo. Nel corso del viaggio, riprese una certa calma; ma a misura che ci si avvicinava a casa, il suo viso assumeva un’espressione giù addolorata […]. Quel buon vecchio di Fòka, data un’occhiata sfuggente a noialtri, atterrò gli occhi e, aprendo l’uscio dell’anticamera, voltato di là rispose:
- Sono già cinque giorni che la signora non esce di camera.
[…]
Quanto più egli s’accostava a quella camera, tanto più si tradiva, da tutti i suoi movimenti, l’inquietudine che aveva nell’intimo: entrando nella stanza dei divani, si mise a camminar sulle punte dei piedi, respirando appena, e si fece il segno della croce prima di risolversi a impugnar la maniglia di quell’uscio chiuso. […]
Oh, che angosciosa impressione ritraeva da tutto questo, già inclinata com’era al dolore di un terribile presentimento, la mia fantasia di bambino! […]
Nella stanza delle cameriere, due ragazze, che stavano intente a non so che lavoro, si sollevarono da sedere, per salutarci, con un’espressione talmente afflitta, che io ne fui atterrito. Attraversata, ancora, la stanza di Mimi, il babbo aprì l’uscio della camera matrimoniale, e noi entrammo. A destra della porta c’erano due finestre impannate con dei fazzoletti; presso una, sedeva Natàlja Sàvišna con gli occhiali sul naso, e faceva la calza. Essa non si levò a baciarci, com’era solita fare; si limitò a tirarsi su, posò lo sguardo su noi attraverso gli occhiali, e le lacrime le sgorgarono dirotte. Era una cosa che mi dispiaceva assai, che tutti, al primo vederci, subito ricominciassero a piangere, mentre, fino a quel momento, stavano perfettamente tranquilli.
A sinistra della porta c’era un paravento; di là del paravento, il letto, il comodino, una credenzina carica di medicine, e una grande poltrona, in cui sonnecchiava il dottore; alla sponda del letto, ritta in piedi, c’era una ragazza d’un biondo chiarissimo, di non comune bellezza, che aveva una bianca capote da mattino e, rimboccate un pochino le maniche, applicava del ghiaccio sul capo a maman, che a me, in quel momento, non riusciva visibile. […]
Una gran pena mi teneva in quei minuti, ma senza volerlo notavo qualsiasi minuzia. La camera era quasi buia; c’era gran caldo, e un odore misto di menta, d’acqua di Colonia, di camomilla e di gocce di Hofmann. Questo odore mi colpì in modo, che non solo quando ora lo sento, ma quando appena me lo rievoco, istantaneamente l’immaginazione mi trasporta in quella cupa, soffocante camera, e mi risuscita innanzi tutti i più minuti particolari di quel tremendo frangente.
Gli occhi di maman erano spalancati, ma essa non vedeva nulla... Oh, non sarà mai che io dimentichi quello sguardo terribile! Quanta sofferenza ne traspariva!
Noialtri fummo condotti via.
In seguito, quando io interrogai Natàlja Sàvišna sugli ultimi momenti di mammina, ecco che cosa mi disse:
- Dopo che voialtri foste condotti via, ancora per un pezzo lei continuò a smaniare, proprio come se qui la soffocasse qualche cosa; poi quella testolina le scivolò giù dai guanciali e s’assopì, così cheta, così placida, che pareva angelo del cielo. Ero uscita un momento per vedere come mai non portavano da bere: rientro, e la trovo che già, povera cocca mia, aveva gettato lontano da sé ogni cosa, e faceva cenno che il vostro babbo le s’accostasse. Quello si china sopra, ma ormai si vede che le forze non le bastavano più a dir quel che voleva: aprì le labbra, soltanto, e ricominciò a sospirare: "Dio Signore! I bambini! I bambini!" Io feci l’atto di correre a cercarvi, ma Ivan Vasìljič mi trattenne, dicendo che così si sarebbe agitata peggio, era meglio di no. Dopo d’allora, non fece che sollevare una mano, e poi rilasciarla. Che cosa intendesse con questo, Iddio solo lo sa! Io penso che volesse, così, benedirvi di lontano; ma, evidentemente, il Signore non le concesse, prima dell’ultimo passo, di dare un’occhiata ai suoi figliolini. Poi si sollevò, tesoruccia mia, fece così con quelle manine, e tutt’a un tratto parlò, ma con una voce, che non posso neanche ripensarci: "Madonna Santa, non li abbandonare…". Ormai il dolore le era salito fin sotto al cuore; dagli occhi le si vedeva che soffriva terribilmente, poverina; ricadde sui guanciali, prese tra i denti il lenzuolo, e le lacrime, figlio mio, le colavano giù per le guance.
- E dopo? - domandai io.
Natàlja Sàvišna non era più p in grado di parlare; si voltò dall’altra parte, e incominciò a piangere amaramente.
maman era finita tra sofferenze orribili.
Il giorno dopo, a tarda sera, mi prese un desiderio di vederla ancora una volta. Dominando un senso istintivo di paura, aprii pian piano la porta, e in punta di piedi entrai in salone.
Nel mezzo della stanza, su una tavola, stava la bara; intorno a questa, ormai strutti, dei ceri in alti candelieri d’argento; in un angolo appartato, sedeva il diacono, e con tranquilla, monotona voce leggeva il salterio. Io mi fermai presso la porta e mi feci a guardare; ma i miei occhi erano così lacrimosi, e i nervi così sconvolti che nulla mi riuscì di distinguere; tutto, in non so che strano modo, mi si confondeva insieme: la luce, il broccato, il velluto, quei grandi candelieri, il rosa di quel cuscino ornato di merletti, la coroncina, la piccola cuffia coi nastri, e, ancora, quella cosa diafana del color della cera. Salii in piedi su una sedia per veder meglio il suo viso: ma in quel punto dove si trovava quest’ultimo, di nuovo mi si presentò quello stesso oggetto diafano, d’un giallo spento. Io non riuscivo a credere che quello fosse il suo viso. Mi misi a fissarlo più attentamente, e a poco a poco incominciai riconoscervi i ben noti, cari lineamenti. Sussultai d’orrore quando mi convinsi che era lei; ma perché quegli occhi chiusi s’erano infossati a quel modo? perché quel tremendo pallore, e su una guancia quella macchia nerastra sotto il diafano della pelle? perché l’espressione di tutto il viso era così severa e gelida? Perché le labbra così pallide, e la loro piega così bella, così maestosa, atteggiata a una tale pace sovraterrena, da farmi correre un freddo brivido per la schiena e alla radice dei capelli, quando ci fissavo lo sguardo?
Restavo lì a guardare, e sentivo che un’inspiegabile, irresistibile forza attirava i miei occhi verso quel viso senza vita. Non staccavo gli occhi da esso, e intanto l’immaginazione mi disegnava quadri fiorenti di vita e di felicità. Mi venivo dimenticando che questo corpo esanime, che mi stava disteso di fronte e a cui guardavo ottusamente, come a un oggetto che non avesse nulla di comune coi miei ricordi, era lei. La immaginavo, lei, ora in una situazione, ora in un’altra: viva, lieta, sorridente; poi, tutt’a un tratto, rimanevo colpito da un certo lineamento di quel pallido viso, su cui lo sguardo mi s’era fermato: mi tornava alla coscienza l’orribile realtà, trasalivo, ma non smettevo di guardare. E daccapo le fantasticherie venivano a sostituire la realtà, e daccapo la coscienza della realtà distruggeva le fantasticherie. Alla fine, l’immaginazione fu stanca, cessò di ingannarmi; la coscienza della realtà dileguò anch’essa: io caddi in una profonda trasognatezza. […]
Forse, volando verso un mondo migliore, la sua anima squisita s’era a rimirar con tristezza su questo dove ci aveva lasciati; aveva veduto l’afflizione mia, ne aveva sentito pietà, e sulle ali dell’amore, con un celeste sorriso di compassione, era scesa sulla terra per consolarmi e per benedirmi.
La porta scricchiolò, e nella stanza entrò un altro diacono per dare il cambio al primo. Quel rumore mi riscosse; e il primo pensiero che mi venne, fu che, siccome io non piangevo e stavo ritto lì sulla sedia in una posa che non aveva nulla di toccante, il diacono potesse prendermi per un ragazzo insensibile, che per avventatezza o per curiosità si fosse arrampicato su quella sedia: sicché mi feci il segno di croce, mi inchinai e mi misi a piangere.
Richiamando alla mente, adesso, le mie impressioni d’allora, trovo che solo quel momento in cui mi scordai di me stesso fu di vero dolore. Prima e dopo il funerale, continuai a piangere e a star triste; ma senza vergogna non possa ricordare questa tristezza, giacché a essa si mescolava sempre un certo moto di vanità: ora un desiderio di mostrare che io ero più addolorato di tutti, ora una preoccupazione dell’effetto che potevo produrre sugli altri, ora una curiosità senza scopo, che mi spingeva a fermar l’attenzione sulla cuffietta di Mimi e sulle facce degli astanti. Mi disprezzavo, io, pel fatto che non provavo esclusivamente un senso di dolore e nient’altro, e mi sforzavo di tenerlo nascosto agli altri: di qui la mia afflizione veniva a essere insincera e innaturale. Inoltre, mi derivava un certo piacere dalla consapevolezza d’essere sventurato; cercavo, quindi, di tener desta in me tale consapevolezza, e questo sentimento egoistico era quello che più d’ogni altro mi soffocava dentro la vera afflizione.
Passata quella nottata in un sonno profondo e tranquillo, come sempre avviene dopo una violenta pena, mi risvegliai con gli occhi rasciutti e con i nervi calmati. Alle dieci, ci chiamarono alla funzione funebre, che si sarebbe celebrata prima del trasporto. La stanza era piena zeppa di dipendenti e di contadini, i quali, tutti in lacrime, erano venuti ad accomiatarsi dalla loro padrona. Nel corso della funzione, io feci tutto come si deve: piangere, segnarsi, prostrarsi fino a terra; ma non pregavo col cuore, e rimanevo indifferente […]. Il babbo stava al capezzale della bara; era sbiancato come un fazzoletto, e si vedeva che a stento tratteneva le lacrime. La sua alta figura in frac nero, il pallido viso espressivo, e la solita grazia e sicurezza dei suoi movimenti, mentre si segnava, si genufletteva fino a toccar terra con la mano, prendeva il cero dalle mani del sacerdote, o s’appressava alla bara, riuscivano d’un effetto straordinario; ma non so come, a me non piaceva di lui appunto questo, che potesse riuscire di tanto effetto in un momento simile. Mimi si teneva ritta appoggiata a parete, e pareva che a fatica si reggesse in piedi; il suo abito era tutto gualcito e fuori sesto, la cuffia sbilicata da un lato; gli occhi, gonfi, erano rossi, il capo le ondeggiava; non smetteva un minuto di singhiozzare, con una voce che lacerava l’anima, e di continuo tornava a coprirsi il viso col fazzoletto e tra le mani. Io avevo l’impressione che facesse così per aver modo, col viso nascosto agli spettatori, di riposarsi un istante da quei finti singhiozzi. Mi rammentavo come, la vigilia, avesse detto al babbo che la morte di maman era per lei un così tremendo colpo, da non lasciarle la speranza di poterlo sopportare, e che lei n’era restata priva di tutto, e che quell’angelo (così era solita chiamare maman) fino in punto di morte non la aveva dimenticata, manifestando il desiderio di assicurare per sempre l’avvenire di lei e di Kàtjegnka. Spandeva lacrime acerbe, dicendo queste cose, e forse, il dolore che essa provava era sincero: ma non era pretto ed esclusivo. Ljùbočka, in un abituccio nero con tanto di pleureuses, tutta bagnata di lacrime, teneva bassa la testolina, tratto tratto allungando un’occhiata alla bara, e il visino non le esprimeva, in quell’atto, altro che un terrore infantile. […] La franca natura di Volòdja era franca anche nel lutto: ora stava là assorto in pensieri, fissando immobili le pupille su un oggetto qualsiasi, ora la bocca incominciava d’improvviso a incresparglisi, e lui s’affrettava a segnarsi e a genuflettersi. Quanto agli estranei, ch’erano intervenuti alla cerimonia, a me riuscivano intollerabili. Quelle frasi consolatorie, che essi ripetevano al babbo (nel mondo di là sarebbe stata meglio, non era fatta per questo mondo), mi provocavano una sorta di irritazione.
Che diritto avevano costoro di parlare e di piangere per lei? Certuni, accennando a noialtri, ci chiamavano orfani. Quasi che, se non l’avessero detto loro, non fosse risaputo che i ragazzi, quando non hanno più madre, si chiamano con quel termine! […]
In fondo in fondo al salone, quasi rimpiattata dietro la porta aperta del buffet, stava là sui ginocchi, ricurva e canuta, una vecchietta. Le mani giunte e gli occhi levati al cielo, essa non piangeva, ma pregava. La sua anima aspirava Dio; chiedeva a Lui d’esser riunita a colei, che amava più d’ogni altra cosa mondo; e aveva la ferma speranza che ciò si sarebbe avverato presto.
"Ecco chi le voleva veramente bene!" pensai io, e mi venne vergogna di me stesso.
La funzione funebre ebbe termine; volto della defunta fu scoperto e tutti i presenti eccettuati noialtri, uno alla volta si fecero ad accostarsi alla bara e a deporre un bacio.
Una dell’ultime, a dare quell’estremo commiato alla defunta, fu una povera contadina sconosciuta, con una bella bambinetta di cinqu’anni in braccio, che Dio sa perché s’era portata appresso fin qui. Io, in quel momento avevo cadere per combinazione il mio fazzoletto bagnato, e feci per raccattarlo: ma mentre mi chinavo, fui colpito da un tremendo, squarciante grido, pregno d’un tale spavento, che vivessi cent’anni, non me lo scorderò più: e ogni volta che mi torna a mente, mi corre un brivido ghiaccio per tutto il corpo. Io alzai la testa: sullo sgabello accanto alla bara stava ritta appunto quella contadina, e a fatica tratteneva fra le braccia la bambinetta, la quale, annaspando con le manine, rigettando indietro il visino atterrito e fissando gli occhi sbarrati sul viso della morta, continuava a lanciare quelle tremende, frenetiche grida. Allora proruppi anch’io in un grido, che dovette riuscire ancor più tremendo di quello che mi aveva colpito: e corsi fuori dalla stanza.
Solo in quell’istante avevo compreso da che cosa venisse il forte, gravoso sentore, che mischiandosi all’odore dell’incenso, riempiva la stanza; e il pensiero che quel viso, che fino a pochi giorni prima era pieno di bellezza e di dolcezza, il viso di colei che m’era stata più cara d’ogni altra cosa, potesse destar paura, per la prima volta mi aveva come rivelato l’acerba verità, e mi aveva fatto traboccar l’anima di disperazione.