Letteratura

Jostein Gaarder, La ragazza delle arance, 2004

Di mattina Veronika è a scuola a insegnare ai ragazzi a dipingere arance. […] A colazione siamo tu e io. Poi ti accompagno all’asilo, e dopo ho queste ore tutte per in cui mi siedo al computer in anticamera a scriverti questa lunga lettera. Spesso devo tenermi in equilibrio quando attraverso il soggiorno, per non dare calci al tuo trenino. Lo scopriresti subito se venisse spostato qualcosa.
Capita che debba dormire un po’ in questo mento della giornata, non perché stia male, ma perché non riesco a riposare di notte, quando arrivano tutti i pensieri, quando infuriano maggiormente. Proprio mentre sto per addormentarmi vedo fin troppo profondamente in tutti quei misteri amari, nella grande e brutta favola che non ha fate buone, solo corvi neri, spiriti oscuri ed elfi cattivi. […]
Non mi è particolarmente pesante restare sveglio quando so che tu e Veronika siete in casa, quando so che state dormendo tutti e due. So poi che posso svegliare Veronika, e certe volte lo faccio, così resta sveglia con me. È capitato qualche volta che siamo rimasti svegli insieme tutta la notte. Non ci siamo detti molto. Siamo solo stati insieme. Ci siamo preparati una tazza di tè. Abbiamo mangiato una fetta di pane con il formaggio. Ormai è così, Georg. Queste sono le nuove regole.
Possiamo anche solo tenerci per mano per ore. Qualche volta do uno sguardo alla sua mano, è così delicata e bella, e osservo la mia, magari solo un dito, magari solo un’unghia. Da quanto tempo ho questo dito, penso. Oppure porto la sua mano alle labbra e la bacio.
Ho pensato: questa mano che sto tenendo ora la terrò fino all’ultimo momento, forse in un letto d’ospedale, forse per ore di seguito, fino a quando poi non mollerò gli ormeggi e lascerò la presa.
Siamo d’accordo che andrà così, me l’ha già promesso. È rincuorante pensarci. Ed è indescrivibilmente triste pensarci. Quando lascerò andare la presa di questo universo, sarà una mano calda e viva che lascerò andare, quella della Ragazza delle arance.
Pensa, Georg, pensa se ci fosse una mano a cui aggrapparsi anche dall’altra parte! Ma io non credo ci sia nessun’altra parte. Ne sono quasi certo. Tutto quello che c’è dura solo fino a quando non finisce tutto. Ma spesso l’ultima cosa alla quale una persona resta aggrappata è una mano.
Ho scritto che una delle cose più contagiose che ci sono è la risata. Ma anche il dolore può essere contagioso. Con l’angoscia è diverso. Non si trasmette così facilmente come la risata e il dolore, ed è un bene. Nell’angoscia si è quasi completamente soli.
Ho paura, Georg. Ho paura di essere buttato fuori da questo mondo. Ho paura di sere come questa, quando non mi viene dato di vivere.
Ma una notte ti sei svegliato, era questo che ti volevo dire. Ero fuori in veranda, e improvvisamente ti ho visto uscire dalla tua stanza, strascicando i piedi sul pavimento del soggiorno. Ti stropicciavi gli occhi e ti guardavi intorno. […]
Sono entrato in soggiorno dalla veranda e ti ho preso in braccio. Hai detto che non riuscivi a dormire. Forse l’hai detto perché avevi sentito che mamma e io a volte dicevamo che papà non riusciva a dormire.
Devo ammettere che mi ha reso subito indescrivibilmente felice il fatto che ti fossi svegliato, che fossi venuto da papà quando lui aveva più bisogno di te. Per questo non ho fatto niente per farti dormire di nuovo.
Volevo tanto parlare con te di tutto, ma sapevo anche che non lo potevo fare, eri troppo piccolo per poterlo fare. Comunque eri grande abbastanza per darmi conforto. Se fossi rimasto sveglio, sarei così volentieri rimasto con te per qualche ora quella notte. […]
Sapevo che fuori era una serata meravigliosamente limpida, si vedevano benissimo le stelle, l’avevo visto dalla veranda. Eravamo nella seconda metà di agosto, e probabilmente non avevi mai visto la volta stellata prima, almeno non nel corso della chiara estate che era passata, e l’anno prima eri troppo piccolo. Ti misi un maglione caldo e una calzamaglia, indossai una giacca anch’io, e poi ci sedemmo sul terrazzo, tu e io. Avevo spento le luci dentro, e ora spensi anche quelle fuori.
Prima indicai una luna sottilissima. Era bassa nel cielo, a est. La falce era rivolta a destra, quindi la luna era calante, ti dissi.
Eri seduto in braccio a me e assorbivi tutta la sicurezza di cui eri circondato. Anch’io attingevo da quella sicurezza che scorreva a gocce da te. Poi mi misi a indicare tutte le stelle e i pianeti lassù nella volta celeste. Avrei voluto tanto raccontarti tutto, della grande favola di cui eravamo parte, di questo enorme puzzle di cui tu e io eravamo due minuscole tessere. Anche quella favola aveva delle leggi e delle regole che non potevamo capire, che ci potevano piacere o non piacere, ma di fronte alle quali ugualmente ci dovevamo piegare.
Sapevo che forse presto avrei dovuto separarmi da te, ma non potevo dirtelo. Sapevo che con tutta probabilità ero sulla strada che conduceva fuori da quell’enorme favola in cui tu e io stavamo scrutando proprio in quel momento, ma non potevo confidartelo. Cominciai invece a raccontarti delle stelle, prima in modo tale che tu potessi compren­dere, ma pian piano mi lasciai prendere la mano e cominciai a parlare liberamente dello spazio come se tu fossi stato adulto.
E tu mi lasciavi parlare, Georg. Ti piaceva sentire come raccontavo, anche se non eri in grado di comprendere tutti i misteri ai quali accennavo. Forse hai anche capito più cose di quante io stesso non credessi. Comunque non mi hai mai interrotto, e non ti sei neanche addormentato. Era come se avessi capito che quella notte non mi potevi ab­bandonare. Forse hai sentito che in realtà non ero io che facevo compagnia a te. Eri tu che facevi compagnia a me. Eri tu a fare il papà-sitter. […]
Mentre sto scrivendo tutto questo, tu stai gattonando sul pavimento, mentre costruisci qualcosa di nuovo con i tuoi mattoncini.
Questa è la vita quotidiana, penso. Questa è la realtà. Ma la porta che conduce fuori dalla realtà è spalancata.
Ci sono così tante cose da cui allontanarsi. È troppo quello che abbandoniamo.
Un attimo fa sei venuto da me e mi hai chiesto cosa stessi scrivendo sul computer. Io ti ho detto che stavo scrivendo una lettera al mio migliore amico.
Forse ti è sembrato strano che avessi una voce così triste quando ti ho detto che stavo scrivendo una lettera al mio migliore amico. Hai detto: "È per la mamma?"
Credo di aver scosso la testa. "Mamma è la mia ragazza", ho detto. "È diverso."
"E io chi sono?" hai chiesto poi.
Ero in trappola. Ma a quel punto ti ho sollevato e ti ho messo seduto sulle mie gambe, davanti al computer, ti ho abbracciato stretto e ti ho che tu eri il mio migliore amico.
Per fortuna non hai chiesto altro. Non potevi credere che la lettera fosse per te. Anche a me, sembrava strano immaginarmi che un giorno forse l’avresti letta. […]
Poi, Georg, poi ti ho fatto una domanda, ed è la stessa domanda che ti voglio porre ora che sei effettivamente in grado di capirla. È per via di questa domanda che ti ho raccontato tutta la lunga storia della Ragazza delle arance.
Dissi: "Immagina di trovarti sulla soglia di questa favola, in un momento non precisato di miliardi di anni fa, quando tutto fu creato. Avevi la possibilità di scegliere se un giorno avresti voluto nascere e vivere su questo pianeta. Non avresti saputo quando saresti vissuto, e non avresti neppure saputo per quanto tempo saresti potuto rimanere qui, ma non si trattava comunque che più di qualche anno. Avresti solo saputo che, se avessi scelto di venire al mondo un giorno, quando i tempi fossero stati maturi, come si dice, o "a tempo debito", allora un giorno avresti anche dovuto staccarti da esso e lasciare tutto dietro di te. Forse questo ti avrebbe ferito violentemente, poiché molte persone pensano che la vita in questa grande favola sia così meravigliosa che vengono loro le lacrime agli occhi al solo pensiero che un giorno debba finire. Può essere tutto così bello qui, che fa un male terribile pensare che prima o poi non ci saranno più altri giorni da vivere".
Sedevi zitto zitto in braccio a me. E io dissi: "Cosa avresti scelto, Georg, se ci fosse dunque stata una potenza superiore che ti avesse lasciato questa scelta. In questo ruolo, nella grande e misteriosa favola, possiamo forse immaginarci una fata cosmica. Avresti scelto di vivere un giorno una vita sulla terra, breve o lunga, dopo centomila o cento milioni di anni?".
Credo di aver sospirato pesantemente un paio di volte prima di continuare, ma poi dissi deciso: "Oppure avresti rifiutato di partecipare a questo gioco perché non accettavi le regole?".
Eri ancora seduto in silenzio sulle mie gambe. Chissà cosa pensavi. Eri un miracolo vivente. Mi sembrava che i tuoi capelli del color del grano avessero un odore di mandarino. Eri un angelo vivente, in carne e ossa.
Non ti eri addormentato. Ma non dicevi niente.
Sono sicuro che avessi sentito quello che detto, forse mi avevi addirittura seguito con attenzione. Ma cosa stesse succedendo nel tuo non posso indovinarlo. Eravamo seduti così vicini l’uno all’altro. Ma lo stesso eravamo di colpo dolorosamente lontani.
Ti strinsi ancora più forte a me, forse pensavi che fosse per non farti prendere troppo freddo. Ma poi ti ho tradito, Georg, perché poi mi messo a piangere. Non era mia intenzione farlo. e cercai subito di riprendermi. Ma piangevo.
Nel corso delle ultime settimane mi ero più volte posto io stesso la medesima domanda. Avrei scelto di vivere una vita sulla terra ben sapendo che all’improvviso mi sarebbe stata strappata via, forse proprio nel mezzo dell’ebbrezza della felicità? Oppure già in punto di partenza avrei rifiutato tutto questo gioco azzardato del "dai-e-togli"? Perché veniamo al mondo una volta sola. Veniamo fatti entrare nella grande favola. E oplà! In men che non si dica la favola è finita.
No, non ero tanto sicuro di cosa avrei scelto. Credo che mi sarei rifiutato di partecipare a queste condizioni. Forse avrei declinato cortesemente l’intera offerta di visitare la grande favola se era solo per un breve periodo, e forse avrei risposto in modo non tanto cortese. Forse avrei gridato che il dilemma era così dannatamente insidioso da non volerne sentire più parlare. Ne ero convinto, proprio in quel momento in cui mi trovavo seduto sul terrazzo con te sulle mie gambe ero completamente sicuro che avrei rifiutato l’intera offerta.
Se avessi scelto di non dare mai neppure un’occhiata alla grande favola, non avrei neanche saputo cosa mi sarei perso. Capisci cosa voglio dire? Certe volte è così con noi uomini, è peggio perdere qualcosa di caro che non averlo mai avuto. Basta questo: se la Ragazza delle arance non avesse mantenuto la promessa di incontrarci ogni singolo giorno nei sei mesi dopo il suo ritorno dalla Spagna, allora sarebbe stato meglio per me se non l’avessi mai incontrata. È così anche nelle altre favole. […]
Ma ora tocca a te rispondere, Georg, a te la parola adesso. È stato quella volta, quando eravamo seduti là fuori sotto il cielo stellato, che mi è venuta l’idea di scriverti questa lunga lettera. È stato quando improvvisamente scoppiai a piangere. Infatti non piangevo soltanto perché sapevo che avrei forse dovuto lasciare te e la Ragazza delle arance. Piangevo perché eri così piccolo. Piangevo perché noi due non potevamo parlare insieme come si deve.
Te lo chiedo di nuovo. Cosa avresti scelto se ne avessi avuto l’occasione? Avresti scelto di vivere per un breve momento sulla terra, per poi, dopo pochi anni venire strappato da tutto quanto e non tornare mai più? O avresti rifiutato?
Hai solo due alternative. Perché queste sono le regole. Se scegli di vivere, scegli anche di morire.
Ma ora promettimi che ti prenderai il tempo necessario per riflettere bene prima di rispondere.
Forse mi sto insinuando troppo a fondo dentro di te ora. Forse ti sto esponendo troppo. E forse non ne ho il diritto. Ma per me ha un’importanza immensa la risposta che darai a questa domanda che ti ho posto, dato che sono direttamente responsabile del fatto che ti trovi qui. Certo non avresti potuto essere al mondo se io me ne fossi tenuto lontano.
Provo una specie di senso di colpa per aver contribuito a metterti al mondo. In un certo senso sono stato io a darti questa vita, o io e la Ragazza delle arance, naturalmente. Ma così siamo anche noi che un giorno te la toglieremo. Dare la vita a un bambino non significa solamente fare a questo bambino il grande dono del Mondo. Significa anche riprendersi lo stesso inconcepibile dono.
Devo essere onesto con te, Georg. Io stesso, come ho detto, avrei rifiutato l’offerta di una visita panoramica fulminea della grande favola, del tipo "conosci il mondo". Lo ammetto. E se la pensi come me, mi sento in colpa per quanto ho contribuito a mettere in moto.
Mi sono lasciato sedurre dalla Ragazza delle arance, mi sono lasciato tentare dall’amore, mi sono lasciato adescare dall’idea di avere un bambino. Ora arrivano la rabbia e il bisogno di conciliazione. Ho fatto qualcosa di sbagliato? penso. La domanda pesa come un cruento conflitto all’interno della propria coscienza. Poi arriva anche il bisogno di fare ordine dietro di sé.
Ma, Georg, ora può sorgere un nuovo dilemma, e forse non è così complicato, o maligno, come il primo. Se tu rispondi che nonostante tutto avresti scelto di vivere, anche se solo per un breve momento, allora in fondo io non ho il diritto di desiderare di non essere nato.
Così si arriva almeno a un pareggio nel nostro resoconto, così i fattori si possono annullare. Naturalmente è questo che spero. Sì, è per questo che sto scrivendo.
Non puoi rispondermi direttamente alla domanda che ti ho posto. Ma puoi rispondermi in maniera indiretta. Puoi rispondermi attraverso il modo in cui sceglierai di vivere questa vita che hai cominciato quando Veronika, io e un medico indisciplinato all’ospedale brindammo a te con lo champagne. […]
Ora puoi mettere giù questo mio saluto per te. Ora tocca a te vivere.
Io sarò ricoverato in ospedale domani. Era questo l’appuntamento importante. Sarà mamma allora a doverti accompagnare all’asilo.[…]
Georg! Ho un’ultima domanda: posso essere sicuro che non c’è un’altra esistenza dopo questa? Posso essere del tutto convinto che non mi troverò in un altro luogo quando leggerai questa lettera? No, non posso esserne sicuro al cento per cento. Perché, se c’è il mondo, allora le frontiere dell’improbabile sono già state scavalcate. Capisci quel che voglio dire? Sono già così pieno di stupore per il fatto che esista un mondo, che non avrei spazio per altro stupore se dovesse rivelarsi che esiste anche un altro mondo dopo questo.
Ricordo che un paio di giorni fa abbiamo passato alcune ore giocando al computer. Forse ero io che mi divertivo di più con questo videogioco, avevo un bisogno così disperato di staccare la spina da tutti i pensieri. Ma ogni volta che "morivamo" in questo gioco, immediatamente compariva un nuovo omino, e così si ricominciava. Come si fa a sapere che non ci sia un "nuovo omino" simile anche per le nostre anime? Io non ci credo, proprio no. Ma sognare qualcosa di improbabile ha un proprio nome. Lo chiamiamo speranza.