Letteratura

Angeles Mastretta, Il mondo illuminato, Anticipazioni sulla propria morte, 1998

Le mani sono forse ciò che abbiamo di più vivo.
Guardo le mie mani di ora mentre battono i tasti del computer, quando invece sono state incapaci di tasteggiare bene un pianoforte, di ricamare una tovaglia, di dipingere come quelle di mia sorella. Le guardo ora e mi concedo il piacere di pensare che possono restare vive per molti anni. Ogni giorno un po’ più torbide di quelle che un tempo qualcuno prese davanti a un lavandino e contemplò come si vagheggia un ricordo, hai mani da contadina italiana, ma talmente vive da andare ovunque vogliano, fino a diventare davvero molto vecchie, tremanti e coperte di macchie, con la pelle grinzosa come la buccia di una cipolla. Come saranno le mie mani quando morirò? Grate? Di quante cose dovrebbero essere grate! Vecchia come un ragno, abbandonata al sole, guardando i vulcani, cinici, eterni, mentre trionfano una volta di più su una vita umana. Così potrei morire a novantanove anni, e sarei grata alla morte. Saranno grate io e le mie vecchie mani, che avrebbero toccato quasi tutto ciò a cui qualche volta avevo anelato.
Ma potrei anche morire domani, benché quest’uomo con cui condivido i sogni si precipiti a toccare ferro e risvegli di colpo tutte le mie vanità. Allora mi perderei le albe interrotte che mi riserverebbe quest’anno, la crociera in barca a vela che non ho ancora fatto, il matrimonio di mia figlia, la nuora che mi darebbe mio figlio, il soggiorno a Boston e i fiori di mango che profumano il giardino di Antonio Hass a Sinaloa. Mi perderei lo studio vicino al fiume, l’inutile acquisto di una casa fatiscente nella cuatro poniente, la sostituzione del pavimento di legno che si è sollevato in sala da pranzo, il film che faranno ispirandosi a un libro che dicono abbia scritto dieci anni fa, qualcuno che potrebbe diventare presidente della Repubblica, pur sostenendo che non gli interessa diventarlo, le jacarande in fiore che potrei vedere ogni settimana santa fra i miei quarantacinque e i miei cent’anni, la torta di compleanno che mi preparerebbe la mia bisnipote Catalina al compimento del mio centunesimo anno. Mi perderei anche un’infinità di travagli interiori e un numero persino maggiore di devastazioni esteriori, ma se devo scegliere alla cieca fra il nulla e quel che seguirà, preferisco senza dubbio qualunque cosa al mondo venga in mente di mettermi davanti.
È facile fantasticare sulla propria morte, quando non è altro che questo: una minaccia che sentiamo remota e possiamo collocare lontanissimo, fra due montagne e i centovent’anni , sopra il mare e i novantaquattro anni, e solo ogni tanto, azzardando molto, a un giorno o a dieci di distanza delebile. Con la morte degli altri non giochiamo, perché essa è un’esperienza orribile che già conosciamo, mentre la nostra è soltanto un sogno, un incubo, un rimedio estremo da tutti tanto temuto.
Se si deve fantasticare sulla morte, meglio scegliere la propria e immaginarla remota, come ognuno la immagina per poter continuare a vivere. Ed è per questo che siamo in balia di ogni alba e di ogni notte, che giungono come un privilegio quotidiano a toccarci la fronte per darci il permesso di continuare la sacrosanta lotta, come se farlo fosse merito nostro e non dell’arbitraria generosità del cosmo che ci ospita.