Letteratura

O. Henry, Le memorie di un cane giallo e altri racconti, XIX secolo

Non era, quella, né la stagione né l’ora in cui si usa frequentare il Parco, ed è probabile che la giovane che s’era seduta su una delle panchine del viale avesse obbedito unicamente ad un subito impulso di far sosta e gustare un presentimento di primavera.
Sedeva, immobile e pensosa. La vaga malinconia che le segnava il volto doveva essere di nascita recente, giacché non ancora intaccava la linea giovane e bella delle guance, né domava la maliziosa, ma risoluta curva labbra.
Un uomo alto e giovane percorreva a gran passi quello stesso viale. Gli stava alle calcagna un ragazzo carico di una valigia. Alla vista della giovane l’uomo arrossì, e subito impallidì di nuovo. Avvicinandosi, egli osservava quel volto, con ansia e speranza insieme. Passò a pochi metri da lei, ma non vide indizio che la donna si fosse accorta della sua presenza, o ammettesse la sua esistenza.
Una cinquantina di metri più in là egli si fermò bruscamente e sedette su una panchina. Il ragazzo lasciò cadere la valigia, e lo scrutò con occhi: perplessi, indagatori. Il giovane prese il fazzoletto e si asciugò la fronte. Era un bel fazzoletto, una bella fronte, ed il giovane era bello a guardarsi.
Disse al ragazzo: - Voglio che tu porti un messaggio alla donna seduta a quella panchina. Dille che sto andando alla stazione, dove prenderò il treno per San Francisco. Là mi unirò ad una spedizione che va in Alaska, a caccia dell’alce. Dille che, giacché ella mi ha ordinato di non parlarle né di scriverle, ricorro a questo mezzo per rivolgere un ultimo appello al suo senso di giustizia, in grazia di quel che è stato. Dille che condannare e allontanare chi nulla ha fatto per meritare un tale trattamento senza dirgliene la ragione, né dargli modo di spiegare, è contrario alla sua natura, come io ritengo che sia. Dille che io ho in certa misura disubbidito alle sue ingiunzioni, nella speranza che le sia ancora cara la giustizia. Va’, e parla come io ti ho detto.
Il giovane lasciò cadere un mezzo dollaro nella mano del ragazzo. Gli occhi svelti ed astuti di quella faccia sporca e intelligente lo fissarono per un istante, poi il ragazzo partì di gran corsa. S’accostò alla signora sulla panchina, un poco cautamente, ma senza mostrare disagio. Si tocco l’orlo del vecchio berretto da ciclista, buttato all’indietro sulla sua testa. La giovane lo guardò freddamente, senza pregiudizio, senza favore.
- Signora mia, - disse, - quel signore là sulla panchina m’ha raccontato la filastrocca, e vuole che gliela ridica. Ma se quel tipo voi non l’avete ma visto, e vuol fare il dritto, fate un fischio, e in tre minuti vi trovo lo sbirro; caso contrario, e se non vi secca, state a sentire, che è un mazzo di galanterie.
La giovane mostrò un vago interesse.
- Una filastrocca! - disse, con voce deliberatamente modulata, dolce, che parve rivestire le sue parole di una veste diafana di impalpabile ironia. - Che nuova idea... di tradizione trovadorica, immagino. Io... ho conosciuto quel signore: non credo sia il caso di. chiamare la polizia. Cantami la filastrocca, ma fa’ piano. Non è l’ora per un vaudeville all’aria aperta, e potremmo attirare l’attenzione.
- Be’, - disse il ragazzo, scrollandosi quant’era lungo, - voi capite quel che voglio dire. Si tratta di chiacchiere, si sa. Mi ha detto che in quella valigia ha polsini e colletto, e che adesso va a Frisco, e poi va a Klondike a sparare agli uccelli da neve. Dice che voi gli avete detto di piantarla di fare il cascamorto e mandarvi i biglietti rosa, e lui fa così per informarvi. Dice che l’avete messo in archivio senza dargli modo di fare neanche bai. Dice che l’avete scaricato, e senza dirgli il perché.
Negli occhi della donna l’interesse non parve attenuarsi. Forse ne era ragione l’originalità e l’audacia del cacciatore di uccelli da neve, che aveva saputo a quel modo eludere la sua ingiunzione di astenersi dai consueti mezzi di comunicazione. Ella fissò i suoi occhi su di una statua che sconsolata si ergeva nello scomposto giardino, e si rivolse al microfono.
- Di’ a quel signore che non occorre che io gli descriva di nuovo i miei ideali. Ben sa quali essi fossero, e sono ancora. In questo caso nulla mi pare più importante della più assoluta lealtà e sincerità. Digli che ho studiato il mio cuore per quanto è possibile, e che ne conosco debolezze e esigenze. E per questo non voglio udire le sue difese, quali si siano. Non lo condannai per sentito dire, o per dubbia prova, e per questo non ho mosso alcuna accusa. Ma giacché vuol sentirsi dire quel che già sa, puoi riferirgli quel che ora ti dico. Digli che quella sera io entrai nella serra per spiccare una rosa per mia madre. Digli che vidi lui con Miss Ashburton sotto l’oleandro rosa. Un bel quadro davvero, ma la posa e la giustapposizione di quei due erano troppo eloquenti per richiedere una spiegazione. Lasciai, insieme, la serra, la rosa, il mio ideale. Puoi ripetere questa filastrocca al tuo impresario.
- C’è una parola, signora... gius... giust... ditemi un po’ che vuol dire, per cortesia?
- Giustapposizione... puoi chiamarla prossimità o se preferisci, una eccessiva vicinanza, incompatibile con la posizione di ideale.
La ghiaia scattò gotto il piede del ragazzo. Si fermò accanto all’altra panchina. Gli occhi dell’uomo lo interrogarono, ansiosi. Quelli del ragazzo rifulgevano dell’impersonale zelo del traduttore.
- La signora dice che una ragazza si secca facile quando il suo ganzo fa il paravento, il finto, e che non vuol più berne di chiacchiere mielose. Dice che vi ha beccato papale papale che vi strizzavate la smorfiosa nella serra. Era entrata un momento a prender fiorellini, ed eccoti lì a paccare la ragazza. Dice che era carino, come no, ma a lei ha dato il voltastomaco. Dice meglio che vi diate da fare, e filate al treno.
L’uomo emise un fischio sommesso e nei suoi occhi balenò una luce improvvisa. La mano gli corse alla tasca interna della giacca, e ne trasse una manciata di lettere. Sceltane una, la consegnò al ragazzo, facendola seguire da un dollaro d’argento tratto dalla tasca del panciotto.
- Da’ questa lettera alla signora, - disse, - e pregala di leggerla. Dille che dovrebbe bastare per spiegare tutto. Dille che, avesse soltanto mescolato un po’ di fiducia ai suoi ideali, molte angosce sarebbero state evitate. Dille che aspetto una risposta.
Il messaggero ristette davanti alla signora.
- Quel signore dice che lui non ha colpa di niente. Dice che non è un filone; signora mia, leggete la lettera, e vedrete che non è un’anima nera.
Non senza perplessità la giovane aperse la lettera e lesse:
Caro dottor Arnold,
voglio ringraziarvi per il cortese, opportuno aiuto che offriste a mia figlia venerdì scorso, quando nella serra, durante il ricevimento di Mrs. Waldron, venne colta da un attacco del vecchio mal di cuore. Non foste stato voi vicino e pronto a coglierla mentre cadeva, e prestarle le necessarie cure, forse l’avremmo persa. Sarei lieto se voleste passare da me, e prendervi cura del suo caso.

Con gratitudine
Robert Ashburton

La giovane ripiegò la lettera e la consegnò al ragazzo.
- Quel signore vuole una risposta, - disse il messaggero; - che gli dico?
Gli occhi della giovane ebbero un lampo, sorridenti, lucidi, umidi.
- A quel tipo là sulla panchina, - disse, con un felice, tremulo riso, - digli che la sua ragazza lo vuole.