Letteratura

Abelardo ed Eloisa, Lettera II

Carissimo, poco fa per puro caso mi è capitata fra le mani la lettera pietosa e compassionevole che avete scritto ad un amico. Subito, dalla intestazione stessa, ho capito che era vostra, e mi son messa a leggerla con un entusiasmo pari soltanto all’affetto che porto a chi l’ha scritta: ho voluto, per così dire, ritrovare nelle sue parole l’immagine di colui che non è più con me. Ma quasi ogni riga della lettera - mi è rimasta tutta nella memoria - era piena di fiele e di assenzio, né, forse, poteva essere diversamente, dal momento che non vi si narra altro che la infelice storia che ci ha portati in monastero e le sofferenze che quotidianamente ti travagliano, mio unico bene.
Certo nella lettera hai conseguito lo scopo che ti eri ripromesso all’inizio: il tuo amico deve aver capito che le sue pene sono poca cosa o nulla addirittura, in confronto alle tue. […]
Sono convinta che nessuno potrebbe leggere o ascoltare tutto ciò senza piangere. Quanto a me, ti confesso che ho sofferto tanto più quanto più crudi e precisi erano i particolari: ma quello che soprattutto mi preoccupa è il saperti tuttora in pericolo: qui noi siamo tutte in ansia per la tua vita e in cuor nostro trepidiamo e palpitiamo per te, al punto che ci aspettiamo da un momento all’altro di venire a sapere che sei morto. […]
Nessuno ti proibisce di scriverci, nulla te lo impedisce e, mi auguro, non sarà certo la tua pigrizia la causa di un eventuale ritardo.
Hai scritto al tuo amico una lunga lettera per consolarlo delle sue sventure, è vero, ma è delle tue che gli parli. E ricordando ad una ad una le tue disgrazie per confortarlo, ci hai gettate nello sconforto: così, mentre cercavi di guarire le sue ferite, hai aperto nuove piaghe nel nostro dolore e hai allargato quelle di un tempo. […]
I santi Padri hanno indirizzato numerosi e profondi trattati alle monache, per istruirle, per esortarle e anche per consolarle: e certo tu, intelligente conte sei, sai meglio di noi, povere donne, con quanto amore e con quale zelo abbiano atteso a questo genere di lavoro. Perciò io ora mi stupisco non poco vedendo che da lungo tempo ormai tu hai come dimenticato gli inizi ancor fragili della nostra vita monastica: e niente, né il rispetto di Dio, né l’amore per me, né l’esempio dei santi Padri, sembra possa indurti a confortare e ad aiutare con le tue parole o anche solo con una lettera questa tua povera Eloisa che è in preda all’incertezza e che si sente quasi morire a causa del lungo dolore patito. Eppure tu sai bene che a legarci c’è anche il sacro vincolo del matrimonio, e sai bene che io ti ho amato sempre di un amore senza fine.
Tu sai, mio caro - e lo sanno tutti -, quel che ho perduto perdendo te. Tu sai quel che ha voluto dire per me la terribile vicenda, ormai nota a tutti, che, insieme a te, ha strappato me a me stessa e sai come il modo in cui ti ho perduto mi abbia fatto soffrire più della perdita stessa. E allora, quanto maggiore è la causa del mio dolore, tanto più efficaci devono essere anche i rimedi, e devi essere tu a porgermeli e non altri, perché tu solo, tu che sei la causa del mio dolore, tu solo puoi aiutarmi.
Come solo tu puoi farmi soffrire, così solo tu puoi rasserenarmi e consolarmi. È un tuo dovere, perché io ti ho sempre ubbidito con fervore, ho sempre fatto quello che tu mi dicevi di fare, tant’è vero che, non potendo farti torto in alcun modo, non ho esitato, a un tuo ordine, neppure a perdere per sempre me stessa. Ma sono andata anche più in là. Può sembrare strano, ma ero talmente pazza d’amore che ho rinunciato perfino all’uomo che amavo, senza alcuna speranza di poterlo un giorno riavere; una tua parola è bastata perché con l’abito mutassi anche il cuore; e con questo ho voluto dimostrarti che tu eri l’unico padrone non solo del mio corpo, ma anche della mia anima.
In te ho cercato e amato solo te, Dio mi è testimone; ho desiderato te, non i tuoi beni o le tue ricchezze. Non ti ho chiesto patti nuziali né dote alcuna; non ho voluto soddisfare la tua volontà e il mio piacere, ma te e il tuo piacere, lo sai bene. E anche se il nome di sposa può parere più santo e più decoroso, per me fu sempre più dolce quello di amica, perfino quello di amante, se non ti offendi, o di sgualdrina. Appunto perché, quanto più mi umiliavo davanti a te, tanto più credevo di piacerti, e di recare minor danno alla tua gloria.
Tu stesso, del resto, parlando di te nella lettera che hai scritto al tuo amico per consolarlo, dimostri di non aver dimenticato del tutto queste cose. Tuttavia, anche se gli esponi qualcuno dei motivi che io adducevo per costringerti a rinunciare a un matrimonio che consideravo dannoso, hai taciuto la maggior parte delle ragioni che mi facevano preferire l’amore al matrimonio, la libertà al vincolo nuziale. Chiamo Dio a testimone: se Augusto stesso, signore dell’universo, si fosse degnato di chiedermi in sposa e mi avesse offerto il dominio perpetuo sul mondo, mi sarebbe sembrata cosa più dolce e più bella essere considerata una prostituta qualsiasi e stare con te, piuttosto che essere un’imperatrice con lui. […]
Davvero fortunati gli sposi che, per una sorta di santo errore o per un felice inganno, grazie a un perfetto accordo conservano anche nella vita matrimoniale la loro purezza, e non praticando la continenza dei corpi, ma serbando il pudore delle anime!
E quello che per le altre donne è frutto solo di un’illusione, per me era una cosa vera e reale: in effetti ciò che ciascuna di esse poteva soltanto pensare del proprio marito, di te non ero solo io a pensarlo ma il mondo intero, il quale non solo lo pensava, ma lo sapeva: e il mio amore per te, così, era tanto più vero quanto meno si nutriva di illusioni. Quale re a quale filosofo poteva vantare una fama pari alla tua? Quale regione, città o paese non era agitato dal desiderio di vederti? Chi, dimmi, non si precipitava a vederti, le rare volte che apparivi in pubblico e non ti seguiva con gli occhi fissi, torcendo il collo, quando te ne andavi? Quale sposa o quale vergine non si consumava per te quando non c’eri e non diventava di fiamma quando le stavi accanto? Quale regina, quale donna potente non invidiava le mie gioie e il mio letto?
Tu avevi due cose in particolare che ti rendevano subito caro a qualunque donna: la grazia dei tuoi versi e fascino dei tuoi canti, due cose che di solito i filosofi non hanno. Così, come per passatempo, quasi per riposarti dai tuoi faticosi studi, hai composto quei canti d’amore che poi, divulgati dappertutto, per la dolcezza delle parole e la bellezza del ritmo musicale, portarono il tuo nome sulla bocca di tutti e ti resero famoso anche presso gli illetterati, che non potevano restare insensibili alla vaghezza delle tue melodie. Per questo soprattutto, le donne sospiravano d’amore per te, e poiché la maggior parte di quei canti celebravano il nostro amore, ben presto anche il mio nome si diffuse in molte contrade, e io divenni oggetto d’invidia agli occhi di molte donne.
D’altra parte bisogna anche dire che eri giovane, bello e intelligente. E sono sicura che chiunque, fra le donne che allora mi invidiavano, oggi mi capirebbe e mi compa­tirebbe sapendomi privata di tali delizie. Chi è quell’uomo chi e quella donna che, per ostile e nemica che sia, ora non proverebbe un senso di giusta compassione nei miei confronti?
Sono colpevole, colpevole sotto ogni aspetto, ma sono anche innocente, completamente innocente, tu lo sai bene, perché la colpa non sta nelle conseguenze del gesto, ma nell’intenzione di chi lo compie: la giustizia valuta non l’atto in sé ma il pensiero che ha ispirato l’atto. E a questo punto solo tu che li hai provati, puoi giudicare e valutare i sentimenti che ho nutrito per te. Rimetto tutto al tuo esame, mi rimetto completamente a te.
Dimmi soltanto, se puoi, perché dopo il nostro ritiro in convento, ritiro che tu solo hai deciso, hai cominciato a trascurarmi tanto e a dimenticarti tanto di me, al punto che né mi vieni a trovare, né mi scrivi. Rispondimi, ti prego, se puoi, altrimenti sarò costretta a dire io quello che penso o meglio quello che ormai tutti sospettano: i sensi e non l’affetto ti hanno legato a me: la tua era attrazione fisica, non amore, e quando il desiderio si è spento, con esso sono scomparse anche tutte le manifestazioni d’affetto con cui cercavi di mascherare le tue vere intenzioni. E questa, amore mio, non è la mia opinione, ma l’opinione di tutti: non sono io che penso così, ma tutti; è una cosa di pubblico dominio. Volesse il cielo che fosse soltanto una mia sensazione, e che il tuo amore potesse inventare una scusa qualsiasi, per calmare un poco, non tanto, il mio dolore! Io stessa vorrei trovare dei buoni motivi per scusarti e nello stesso modo dissimulare in qualche modo anche la mia triste condizione.
Ascolta, ti prego, quello che ti chiedo: è una cosa da nulla e per te sarà facilissimo accontentarmi. Finche mi sarà negata la gioia della tua presenza, fammi avere almeno la dolce tua immagine attraverso le parole di una lettera: le parole a te non costano molto! E come potrò sperare da te un aiuto materiale, se ti trovo così avaro perfino di parole? E pensare che finora avevo creduto di poter ottenere tutto da te, visto che ti ho sempre ubbidito e che anche adesso continuo a ubbidirti. Perché tu sai bene che ho accettato di sacrificare la mia giovinezza nell’austerità della vita monastica non per vocazione ma solo per ubbidire a un tuo preciso ordine: e ora giudica pure tu a che cosa mi è servito tutto ciò, se tu non mi degni neanche di una parola. Sta’ pur sicuro che da Dio non mi aspetto alcuna ricompensa, perché so che per amore di lui finora non ho fatto assolutamente nulla.
Quando ti sei incamminato verso Dio ti ho seguito, anzi ti ho preceduto. Forse ti sei ricordato della moglie di Loth, che si voltò indietro, e hai voluto che io mi legassi a Dio, prendendo l’abito religioso e i voti monastici prima di te. Solo di questo, te lo confesso, solo di questa tua mancanza di fiducia nei miei confronti, mi addolorai grandemente e arrossii, io che non avrei esitato un attimo a precederti o a seguirti anche nel cratere di un vulcano, se tu me lo avessi ordinato, Dio mi è testimone. La mia anima non era più con me, era con te. E anche ora più che mai, se non è lì con te non è da nessuna parte. Senza di te non può stare, ma tu fa’ in modo che con te stia bene, ti prego. E sai che si troverà bene con te, se ti troverà ben disposto, se gli darai amore in cambio dell’amore che ti porta, anche poco in cambio di tanto, di tantissimo, un parola di conforto in cambio di tante prove d’affetto.
Se tu fossi meno sicuro del mio amore, carissimo, forse ti preoccuperesti di più e saresti più sollecito. Ma ho fatto tanto per renderti sicuro del mio amore, ed ora ti sento indifferente e lontano. Ricordati però, ti scongiuro di tutto quello che ho fatto per te, e pensa un po’ anche a quello che mi devi.
Finché io godevo con te i piaceri della carne, qualcuno poteva domandarsi se io lo facessi per amore o soddisfare la mia voglia: ma ora, il risultato ultimo di tutto dimostra quale fosse in realtà il sentimento che mi animava fin dall’inizio. Ho rinunciato a qualsiasi forma di piacere, per attenermi alla tua volontà: per me non ho serbato nulla, se non la possibilità di essere tua, solo tua.
Pensa come sei ingiusto se, nonostante quel che ho fatto per te, adesso mi trascuri, anzi quasi dimentichi che esisto! E pensare che quello che ti chiedo è facilissimo!
In nome di colui al quale ti sei consacrato, in nome di Dio, ti supplico: fammi il dono della tua presenza, nell’unico modo che ti è possibile, cioè scrivendomi qualche parola di conforto; fallo almeno perché io possa trovare nelle tue lettere la forza di dedicarmi con più zelo al servizio del Signore. Un tempo, quando mi cercavi per soddisfare le tue turpi voglie, mi venivi a visitare spessissimo con i tuoi scritti, e con le tue poesie mettevi il nome della tua Eloisa sulle labbra di tutti: in ogni piazza e in ogni casa risuonava il mio nome. E non sarebbe più giusto che tu oggi incitassi all’amore di Dio colei che un giorno spingevi al piacere?
Ricorda, ti prego, quello che mi devi, considera quello che ti chiedo. Termino questa lunga lettera con parole: addio, mio unico bene.