Letteratura

Thomas Mann, I Buddenbrook, 1901

In complesso i rapporti di Hanno con i suoi piccoli compagni erano distaccati e superficiali; soltanto con uno di essi, e sin dai primi giorni di scuola, aveva stretto un legame più profondo; era un ragazzo di nobile origine, ma dall’aspetto molto trasandato, un conte Mölln, il cui nome era Kai.
Era un ragazzo della statura di Hanno, ma non indossava come questi la marinara danese, bensì un misero abito di colore indefinito, al quale qua e là mancava un bottone, e che di dietro sfoggiava una gran toppa. Le mani, che sbucavano dalle maniche troppo corte, apparivano impregnate di polvere e di terra e di un colore immutabilmente grigio, ma erano sottili e finemente modellate, con le dita affusolate e lunghe unghie a punta. A quelle mani corrispondeva la testa che, trascurata, spettinata e non molto pulita, era stata dotata dalla natura di tutti i caratteri di una razza pura e nobile. I capelli biondo-rossicci, incurantemente divisi nel mezzo, lasciavano libera una fronte bianca come l’alabastro, sotto la quale, profondi e acuti a un tempo, lampeggiavano due occhi azzurri. Gli zigomi erano un po’ sporgenti, e il naso affilato, lievemente curvo e con le narici delicate, aveva già un’impronta caratteristica, come la bocca dal labbro superiore leggermente rialzato.
Ancora prima dell’inizio della scuola, Hanno Buddenbrook aveva visto due o tre volte di sfuggita il piccolo conte, durante le passeggiate che faceva con Ida fuori porta, a nord della città. Laggiù infatti, piuttosto lontano, nei pressi del primo villaggio, c’era una piccola fattoria, una minuscola proprietà quasi senza valore, che non aveva neanche un nome. A guardar dentro si scorgeva un letamaio, una quantità di polli, un canile e una misera casupola dal tetto rosso e spiovente. Era quella la casa padronale, e là abitava il padre di Kai, il conte Eberhard Mölln.
Era costui un originale, che si vedeva di rado, e, dedito all’allevamento di cani e polli e alla coltivazione di ortaggi, viveva lontano dal mondo nella sua piccola fattoria: un omone con stivali alla moschettiera, giubba di rascia verde, testa calva, enorme barba grigia alla Rübezahl, frustino in mano, sebbene non possedesse alcun cavallo, e il monocolo nell’occhio sotto il sopracciglio cespuglioso. All’infuori di lui e di suo figlio non c’era nessun altro conte Mölln nel paese. I vari rami della famiglia, una volta ricca, fiera e potente, erano a poco a poco inariditi, disseccati e marciti; soltanto una zia del piccolo Kai, con la quale però suo padre non aveva rapporti, era ancora viva. Ella pubblicava romanzi su riviste per famiglie con uno stravagante pseudonimo. In quanto al conte Eberhard, si ricordava che, per difendersi dalla noia di richieste, offerte e accattonaggi, per molto tempo dopo che si era stabilito in quel podere fuori porta, aveva esposto sull’umile uscio di casa un cartello, sul quale si poteva leggere: "Qui abita il conte Mölln, da solo, non ha bisogno di nulla, non compra nulla e non ha nulla da regalare." Quando il cartello ebbe sortito il suo effetto e nessuno venne più a importunarlo, egli lo tolse.
Senza madre poiché la contessa era morta mettendolo al mondo, e una donna anziana aveva il governo della casa - il piccolo Kai era cresciuto là, selvaggio come un animale tra polli e cani, e là - da lontano e con grande timore - Hanno Buddenbrook lo aveva visto mentre, simile a un coniglio, saltava tra i cavoli, lottava con i cuccioli e spaventava i polli con le sue capriole.
Lo aveva poi ritrovato a scuola, e da principio aveva sentito ancora quel suo particolare sconcerto per l’aspetto selvaggio del piccolo conte. Ma non a lungo; un istinto sicuro gli aveva fatto vedere attraverso quella scorza incolta, gli aveva fatto notare quella fronte bianca, quella bocca sottile, quegli occhi azzurri dal taglio allungato, che guardavano con una specie di rabbioso stupore, e aveva provato una grande simpatia per quel compagno, unico tra tutti gli altri.
Tuttavia era troppo riservato per trovare il coraggio di far amicizia, e senza la disinvolta iniziativa del piccolo Kai i due sarebbero rimasti del tutto estranei l’uno all’altro. Anzi sulle prime la travolgente rapidità, con la quale Kai lo aveva avvicinato, aveva spaventato il piccolo Johann.
Quel ragazzino trasandato aveva cercato di conquistarsi il favore di Hanno silenzioso e vestito elegantemente con un tale ardore, con un’aggressività così impetuosa e virile che non era stato possibile resistergli. Certo egli non poteva essergli di aiuto durante le lezioni, poiché per il suo spirito indomito e vagabondo la tavola pitagorica era qualcosa di altrettanto odioso quanto allo spirito sognante e distratto del piccolo Buddenbrook; ma gli aveva regalato tutto quanto era suo, palline di vetro, trottole di legno e persino una piccola pistola di latta, storta, che era poi il meglio che possedeva... Tenendolo per mano, durante gli intervalli, gli aveva parlato della sua casa, dei cuccioli, e dei polli, e a mezzogiorno, benché Ida Jungmann, un pacchetto di panini imbottiti in mano, attendesse sempre il suo ragazzo davanti alla porta di scuola per la passeggiata, egli lo aveva accompagnato il più lontano possibile. In quell’occasione Kai era venuto a sapere che in casa il piccolo Buddenbrook era chiamato Hanno, e subito si era impadronito di quel vezzeggiativo, per non chiamare mai più il suo amico in altro modo.
Un giorno aveva chiesto che Hanno, anziché sui bastioni, facesse una passeggiata con lui fino alla proprietà di suo padre, per vedere i porcellini d’India appena nati, e la signorina Jungmann aveva infine ceduto alle preghiere dei due. Erano andati fino alla proprietà del conte, avevano visto il letamaio, gli ortaggi, i cani, i polli e i porcellini d’India e alla fine erano anche entrati in casa, dove, in una stanza bassa e lunga del pianterreno il conte Eberhard, immagine di ostinato isolamento, leggeva seduto accanto a una pesante tavola rustica e bruscamente aveva chiesto che cosa volessero...
Ida Jungmann era stata ben decisa a non ripetere quella visita; aveva anzi insistito perché, se i due ragazzi volevano stare insieme, venisse piuttosto Kai a trovare Hanno, e così il piccolo conte, con sincera ammirazione, ma senza soggezione, era entrato per la prima volta nella splendida casa paterna del suo amico. Da allora era ritornato sempre più spesso, e soltanto la neve alta, in inverno, poteva impedirgli di ripercorrere al pomeriggio la lunga strada per trascorrere un paio d’ore con Hanno Buddenbrook.
Stavano nella grande stanza dei ragazzi al secondo piano e facevano i compiti di scuola. C’erano lunghi problemi di aritmetica da risolvere, che, dopo aver coperto le due facce della lavagna di addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni, infine dovevano dare per risultato un semplice zero - in caso contrario, doveva esserci un errore che si doveva cercare e cercare fino a trovare quel maligno animaletto e a eliminarlo; c’era da sperare che non si trovasse troppo in alto poiché altrimenti si doveva riscrivere tutto quanto. Poi bisognava dedicarsi alla grammatica tedesca, imparare l’arte della comparazione e scrivere molto ordinatamente, in colonna, considerazioni del tipo: "Il corno è trasparente, il vetro è più trasparente, l’aria è la più trasparente." Quindi si prendeva il quaderno dei dettati per studiare frasi come: "La nostra Edvige è molto volenterosa, ma non spazza mai bene le immondizie in cortile." Questo esercizio pieno di tentazioni e di tranelli aveva lo scopo di far commettere una quantità di errori di ortografia, e poiché venivano puntualmente commessi, bisognava poi procedere alla correzione. Ma appena avevano finito i compiti, i ragazzi mettevano via i libri e sedevano sul davanzale ad ascoltare le letture di Ida.
Quell’anima gentile leggeva le storie del gatto con gli stivali, di colui che voleva imparare la paura, di Raperonzolo, di Pollicino e del Re dei ranocchi - con voce bassa e paziente e gli occhi semichiusi, perché quelle fiabe, che in vita sua aveva letto fin troppe volte, le sapeva quasi a memoria e intanto sfogliava meccanicamente le pagine con l’indice inumidito.
Quelle riunioni ebbero lo strano effetto di destare nel piccolo Kai il bisogno di imitare il libro e di raccontare qualcosa anche lui e ciò era tanto più gradito in quanto le favole stampate divennero a poco a poco tutte note, e anche Ida doveva pur riposarsi di tanto in tanto. Le storie di Kai erano da principio brevi e semplici, ma poi divennero più ardite e complicate e acquistarono interesse per il fatto che non erano del tutto campate in aria, ma prendevano origine dalla realtà, ponendola in una luce strana e misteriosa... Hanno ascoltava con particolare interesse il racconto di un mago malvagio ma straordinariamente potente, che tormentava tutti con le sue perfide arti e teneva prigioniero, in forma di uccello variopinto, un principe bello e intelligente di nome Josephus. Ma già cresceva in un luogo lontano l’eletto che un giorno, alla testa di un irresistibile esercito di cani, polli e porcellini d’India, sarebbe impavidamente sceso in campo contro quel mago e, con un colpo di spada, avrebbe liberato il principe e il mondo intero, ma soprattutto Hanno Buddenbrook. Allora, sciolto l’incantesimo, Josephus sarebbe ritornato nel suo regno, e, diventato re, avrebbe elevato Hanno e Kai alle più alte cariche…