Letteratura

Simone de Beauvoir, Memorie di una ragazza per bene, 1958

Il giorno in cui entrai in quarta elementare - ero ormai sui dieci anni - il posto accanto al mio era occupato da una bambina nuova: una brunetta dai capelli corti. Aspettando la signorina, e alla fine della lezione, parlammo. Si chiamava Elizabeth Mabille, e aveva la mia età. I suoi studi, cominciati in famiglia, erano stati interrotti da un grave incidente: in campagna, mentre stavano cuocendo delle patate, le si era appiccato il fuoco all’abito; aveva riportato un’ustione di terzo grado alla coscia che l’aveva fatta urlare per notti e notti. Era dovuta restare a letto per un anno intero; sotto la gonna pieghettata, la carne era ancora tutta raggrinzita. A me non era mai accaduto nulla di così importante. La mia nuova compagna mi parve subito un personaggio. Il suo modo di parlare con le insegnanti mi sbalordì; la sua naturalezza contrastava con la voce stereotipata delle altre compagne. Nella settimana che seguì mi conquistò totalmente: scimmiottava in modo meraviglioso la signorina Bodet, e tutto quello che diceva era interessante o strano.
Nonostante le lacune dovute al suo ozio forzato, Elizabeth si piazzò ben presto tra le prime della classe; in componimento io la battevo di misura. L’emulazione che sorse tra noi piacque alle insegnanti, che incoraggiarono la nostra amicizia. Al saggio ricreativo che aveva luogo ogni anno verso Natale, ci fecero recitare insieme un dialogo. Con un vestito rosa, il viso incorniciato di riccioli, io impersonavo Madame de Sévigné bambina; Elizabeth faceva la parte d’un suo giovane e irrequieto cugino; il costume da ragazzo le si addiceva, e il pubblico rimase incantato dalla sua vivacità e disinvoltura. Il lavoro delle prove, e il nostro colloquio sotto le luci della ribalta, rinsaldarono ancor di più i nostri legami; ormai ci chiamavano "le due inseparabili".
Mio padre e mia madre fecero molti discorsi sui diversi rami delle varie famiglie Mabille di cui avevano sentito parlare, e conclusero che avevano con i genitori di Elizabeth vaghe relazioni comuni. Suo padre era un ingegnere delle ferrovie di grado molto elevato; sua madre, nata Larivière, apparteneva a una casata di cattolici militanti; aveva nove figli e si occupava attivamente delle opere di san Tomaso d’Aquino. Ogni tanto faceva la sua apparizione in rue Jacob. Era una bella signora di quarant’anni, bruna, dagli occhi di fuoco e dal sorriso accentuato; attorno al collo portava un nastro di velluto fermato con un gioiello antico. Temperava con una premurosa amabilità la sua disinvoltura da sovrana. Conquistò la mamma chiamandola "petite Madame", e dicendole che sembrava la mia sorella maggiore. Elizabeth ed io fummo autorizzate ad andare a giocare l’una in casa dell’altra.
La prima volta che andai a rue de Varennes mia sorella mi accompagnò, e restammo tutt’e due sgomente. Elizabeth - che nell’intimità era chiamata Zazà - aveva una sorella e un fratello più grandi, e sei, tra fratelli e sorelle, più piccoli di lei, oltre una moltitudine di cugini e di piccoli amici. Correvano, saltavano, si picchiavano, si arrampicavano sui tavoli, rovesciavano i mobili, gridando. Alla fine del pomeriggio, la signora Mabille entrava nel salotto, rimetteva in piedi una sedia, asciugava sorridendo una fronte sudata; io mi stupivo della sua indifferenza ai bernoccoli, alle macchie, ai piatti rotti: non si arrabbiava mai. Non mi piacevano molto quei giochi forsennati, e spesso anche Zazà se ne stancava. Andavamo a rifugiarci nello studio del signor Mabille, e, lontane dal tumulto, ci mettevamo a parlare. Era un piacere nuovo. I miei genitori mi parlavano, e io parlavo loro, ma non conversavamo; tra mia sorella e me non c’era la distanza necessaria per uno scambio. Con Zazà facevo vere conversazioni, come papà con la mamma, la sera. Parlavamo dei nostri studi, delle letture, delle compagne, dei professori, di ciò che sapevamo del mondo: mai di noi stesse. Mai i nostri colloqui diventarono confidenze. Non ci permettevamo alcuna familiarità. Ci davamo cerimoniosamente del voi, e non ci baciavamo se non per lettera. A Zazà piacevano i libri e lo studio al pari di me; in più, essa era dotata di una quantità di capacità che a me mancavano. A volte, quando arrivavo in rue de Varennes, la trovavo occupata a confezionare dei sabbiati, dei caramellati; infilzava con un uncinetto degli spicchi d’arancia, dei datteri, delle prugne e li immergeva in una casseruola dove cuoceva uno sciroppo che odorava di aceto caldo: i suoi canditi sembravano usciti da una confetteria. Ogni settimana poligrafava da sé, in una decina di esemplari, una Cronaca familiare, redatta da lei stessa, e che era dedicata alle nonne, zii e zie assenti da Parigi; la vivacità dei suoi racconti, e la sua bravura nel fabbricare qualcosa che somigliava a un vero giornale erano oggetto di grande ammirazione per me. Prese alcune lezioni di piano con me, ma ben presto mi passò avanti. Benché mingherlina, sapeva fare mille prodezze ginnastiche. Al principio della primavera, la signora Mabille ci condusse tutt’e due in un sobborgo fiorito - credo a Nanterre. Zazà fece la ruota sull’erba, la spaccata, e ogni sorta di capriole; si arrampicava sugli alberi e si sospendeva ai rami coi piedi. In ogni circostanza dava prova di una disinvoltura che mi stupiva. A dieci anni andava per la strada da sola; all’Istituto Désir non prese mai le mie maniere compassate; parlava a quelle signorine in modo educato ma disinvolto, quasi da pari a pari. Un anno, durante un saggio di pianoforte, si permise un’audacia che rasentò lo scandalo. La sala delle feste era gremita. Nelle prime file, le allieve agghindate nei loro più bei vestiti, arricciate, ondulate, con nastri nei capelli, aspettavano il momento di esibirsi. Dietro di loro erano sedute le professoresse e le sorveglianti, in blusa di seta e guanti bianchi. Più indietro sedevano i genitori e i loro invitati. Zazà, vestita di taffetà azzurro, suonò un pezzo che sua madre giudicava troppo difficile per lei, che di solito ne massacrava qualche parte; questa volta lo eseguì senza sbagli, dopodiché, gettando alla madre un’occhiata trionfante, le mostrò la lingua. Le bambine fremettero sotto i loro boccoli, e la faccia di quelle signorine s’irrigidì di riprovazione; ma quando Zazà scese dal palco, la mamma la baciò con tanta gaiezza che nessuno osò rimproverarla. Ai miei occhi quest’episodio la circonfuse di gloria. Sottomessa com’ero alle leggi, alle consuetudini, ai pregiudizi, amavo tuttavia le cose nuove, sincere, spontanee. La vivacità e l’indipendenza di Zazà mi affascinavano.
Non mi resi conto subito del posto che aveva quest’amicizia nella mia vita; non ero in grado, più di quanto non lo fossi stata nella mia prima infanzia, di definire ciò che succedeva dentro di me. Mi avevano portata a confondere ciò che dovrebbe essere con ciò che è; non esaminavo mai ciò che si nascondeva sotto la convenzione delle parole. Ch’io provassi un tenero affetto per tutta la mia famiglia, compresi i più lontani cugini, era cosa sottintesa. E i miei genitori, mia sorella, li amavo: questa parola copriva tutto.
Le sfumature dei miei sentimenti, le loro fluttuazioni, non avevano diritto di esistere. Zazà era la mia migliore amica: non c’era nient’altro da dire. In un cuore ben ordinato, l’amicizia occupa un posto onorevole, ma non ha né lo splendore del misterioso Amore, né la sacra dignità degli affetti filiali. Non mettevo in discussione questa gerarchia.
Anche quell’anno, come gli altri, il mese di ottobre mi riportò la gioiosa agitazione della riapertura delle scuole. I libri nuovi cricchiavano tra le mie dita, avevano un buon odore; seduta sulla poltrona di cuoio mi crogiolavo nelle promesse dell’anno che stava per cominciare.
Nessuna di quelle promesse fu mantenuta. Nei giardini del Lussemburgo ritrovai i sentori e i rossori dell’autunno, ma non mi dicevano più niente; l’azzurro del cielo era diventato opaco. Le lezioni mi annoiavano; studiavo, facevo i compiti senza gioia, e spingevo con indifferenza la porta dell’Istituto Désir. Era proprio il mio passato che resuscitava, non c’era dubbio, eppure non lo riconoscevo: aveva perduto tutti i suoi colori; le mie giornate non avevano alcun sapore. Mi davano tutto, e le mie mani restavano vuote. Camminavo per il boulevard Raspail, accanto alla mamma, e d’un tratto mi domandavo con angoscia: "Che succede? è questa la mia vita? non è stata che questa? e continuerà così per sempre?". All’idea d’infilare indefinitamente settimane, mesi, anni che non avrebbero soddisfatto alcuna attesa, alcuna promessa, mi si mozzò il fiato: mi parve d’un tratto che il mondo fosse morto. Nemmeno a questa disperazione seppi dare un nome.
Per dieci o quindici giorni mi trascinai da un’ora all’altra, da un giorno all’altro, con le gambe molli. Un pomeriggio, mi stavo svestendo nello spogliatoio dell’Istituto, quando apparve Zazà. Ci mettemmo a parlare, a raccontare, a commentare; le parole mi si affollavano alle labbra, e nel mio petto volteggiavano mille soli: in una vertigine di gioia mi dissi: "Mi mancava lei!". Era così radicale la mia ignoranza delle vere avventure del cuore che non avevo affatto pensato di dirmi: "Soffro della sua mancanza". Mi occorreva la sua presenza per rendermi conto del bisogno che avevo di lei, e questo ora mi apparve con un’evidenza folgorante. D’un tratto, le convenzioni, le consuetudini, i clichés volarono in pezzi, e fui sommersa da un’emozione che non era prevista da nessuna regola. Mi lasciai trasportare da questa gioia che si gonfiava in me, fresca e violenta come l’acqua delle cascate, nuda come un bel granito. Qualche giorno dopo arrivai a scuola in anticipo, e guardai con una sorta di stupore lo sgabello di Zazà: "E se non dovesse mai più sedercisi, se morisse, cosa accadrebbe di me?" e una nuova scoperta mi folgorò: "Non posso più vivere senza di lei!". La cosa mi spaventò un po’: lei andava e veniva, lontana da me, e tutta la mia felicità, la mia stessa esistenza erano nelle sue mani. Immaginai che la signorina Gontran sarebbe entrata spazzando il pavimento con la sua lunga gonna, e ci avrebbe detto: - Pregate, bambine: la notte scorsa il Signore ha chiamato a sé la vostra piccola compagna Elizabeth Mabille -. Ebbene, mi dissi, morirei sul momento! scivolerei giù dal mio sgabello e cadrei a terra, spirando. Questa soluzione mi rassicurò. Non credevo sul serio che una grazia divina mi avrebbe tolto la vita; ma nemmeno credevo sul serio che Zazà sarebbe morta. Ero arrivata a confessarmi lo stato di dipendenza in cui mi poneva il mio attaccamento per lei, ma non osai affrontarne tutte le conseguenze.
Non esigevo che Zazà provasse a mio riguardo un sentimento così definitivo: mi bastava essere la sua compagna preferita. L’ammirazione che avevo per lei non mi svalutava ai miei occhi. L’amore non è l’invidia. Non immaginavo nulla di meglio al mondo che essere me stessa, e amare Zazà.

Edward Potthast, Confidenze, XIX-XX secolo.