Letteratura

Eric-Emmanuel Schmitt, Il bambino di Noè, 2004

Cominciò un secondo anno scolastico.
Rudy e io eravamo sempre più amici. Sebbene diversissimi per età, altezza, modo di pensare e comportamenti, le nostre divergenze, anziché allontanarci, ci davano la misura di quanto ci volessimo bene. Io lo aiutavo a fare chiarezza nelle sue idee confuse, lui mi proteggeva dalle zuffe con la sua statura e soprattutto con la sua reputazione di pessimo soggetto.
"Non se ne può cavare niente" ripetevano i professori. "Mai incontrato uno zuccone simile." L’impermeabilità di Rudy all’istruzione riempiva noialtri di ammirazione. Da noi gli insegnanti riuscivano sempre a "cavare qualcosa", il che svelava la nostra natura vile, corrotta e aperta al compromesso in maniera sospetta. Da Rudy non ottenevano niente. Somaro perfetto, puro, intaccabile, integro, Rudy opponeva loro una resistenza assoluta. Diventava l’eroe di un’altra guerra, quella degli studenti contro i pro­fessori. Le sanzioni disciplinari si abbattevano talmente spesso su di lui che la sua testa arruffata e spettinata ne guadagnava un’onorificenza supplementare: l’aureola del martire.
Un pomeriggio che era chiuso in punizione, mentre gli passavo dalla finestra un pezzo di pane rubato, gli domandai perché, sebbene punito, rimanesse così tranquillo, inamovibile e ostinatamente refrattario ad apprendere. Lui si apri.
"Siamo sette, in famiglia: cinque fratelli più i genitori. Tutti intellettuali tranne me. Mio padre è avvocato, mia madre è una rinomata pianista che dà concerti con le orchestre più famose, i miei fratelli e le mie sorelle tutti laureati a vent’anni. Dei cervelloni... Tutti arrestati! Messi su un camion e portati via! Credevano che non sarebbe mai potuto succe­dere, per questo non si erano nascosti: persone così intelligenti, così rispettabili... A me, mi ha salvato il fatto che non mi trovavo né a scuola né a casa, ero in giro per strada. Scampato perché andavo a zonzo... Capisci bene che per me, studiare..."
"Credi che faccia male a imparare quello che mi insegnano?"
"No, tu no, Joseph. Tu hai i mezzi, e poi hai ancora tutta la vita davanti a te..."
"Hai sedici anni, Rudy..."
"Lo so, è già troppo tardi..."
Per quanto non volesse aggiungere altro, capivo che anche lui provava una specie di rabbia verso i suoi. Malgrado fossero spariti, malgrado non ci rispondessero, i nostri genitori continuavano ad avere un ruolo fisso nella nostra esistenza a Villa Gialla. Pure io ce l’avevo con loro! Gliene volevo perché erano ebrei, perché mi avevano fatto ebreo, perché ci avevano esposto al pericolo. Due incoscienti! Mio padre? Un inetto. Mia madre? Una vittima. Vittima di aver sposato mio padre, vittima di non averne valutato la profonda debolezza, vittima perché non era altro che una donna tenera e devota. Disprezzavo mia madre, ma allo stesso tempo la perdonavo perché la amavo. Viceversa nei confronti di mio padre ero imbevuto di un odio compatto. Mi aveva obbligato a diventare suo figlio, rivelandosi incapace di assicurarmi un destino decente. Perché non ero figlio di padre Pons?
Un pomeriggio di novembre del 1943, arrampicati sul ramo di una vecchia quercia affacciata su un panorama di campi che si stendevano a perdita d’occhio, io e Rudy frugavamo tra la corteccia alla ricerca dei nidi dove gli scoiattoli vanno in letargo. I nostri piedi sfioravano l’alto muro di cinta del parco; se avessimo voluto saremmo potuti scappare, saltare sul sentiero che costeggiava il muro e andarcene. Ma dove? Niente valeva la sicurezza di Villa Gialla. Le nostre avventure si limitavano al suo perimetro. Rudy si issò più in alto, io rimasi seduto sulla forcella più bassa, e da lì dov’ero mi sembrò di vedere mio padre.
Un trattore scendeva lungo la strada. Tra poco ci sarebbe passato vicino. Lo guidava un uomo. Sebbene senza barba e vestito da contadino, somigliava abbastanza a mio padre perché lo riconoscessi. Infatti lo riconobbi.
Rimasi paralizzato. Non mi andava per niente di incontrarlo. "Purché non mi veda!" Trattenni il fiato. Il trattore passò sferragliando sotto il nostro albero e proseguì il suo cammino verso la valle. "Meno male, non mi ha visto!" Eppure non era che dieci metri più in là, potevo ancora chiamarlo, riacchiapparlo.
Con la bocca secca, evitando di respirare, aspettai che la distanza rendesse il veicolo minuscolo, impercettibile. Quando fui sicuro che era sparito, tornai a vivere: espirai, sbattei le ciglia, mi riscossi. Rudy fiutò il mio disagio.
"Che ti succede?"
"Sul trattore mi è sembrato di vedere qualcuno che conosco."
"Chi?"
"Mio padre."
"Povero Joseph... È impossibile!"
Scossi la testa per liberarmi il cervello da quei pensieri idioti.
"Certo, è impossibile..."
Mi venne voglia di suscitare la compassione di Rudy, così feci la faccia del bambino deluso. In realtà ero felice d’aver evitato mio padre. E poi chissà se era lui. Forse aveva ragione Rudy. Era mai possibile che vivessimo a pochi chilometri l’uno dall’altro senza saperlo? Inverosimile! A sera ero già convinto d’aver sognato. E rimossi l’episodio dalla mia memoria.
Parecchi anni dopo, scoprii che era davvero mio padre l’uomo che mi aveva sfiorato quel giorno. Un padre che rifiutavo, un padre che speravo lontano, assente o morto... Quel disprezzo volontario, quella reazione mostruosa che ho invano cercato di giustificare con il panico e la mia fragilità dell’epoca, rimane l’atto di cui conserverò la vergogna - intatta, calda, bruciante - fino all’ultimo mio respiro.